La fabbrica degli apolidi

0 commenti

nnn 013

 

 

 

di Annalisa Melandri* - www.annalisamelandri.it 

in esclusiva per il Corriere delle Migrazioni 

 

“Genocidio civile”,  cosi è stata definita dalle voci più progressiste della Repubblica Dominicana, la sentenza n. 168 del 23 settembre scorso, emessa dal Tribunale Costituzionale di questo paese,  che ha di fatto condannato all’apolidia  migliaia di dominicani di origine  haitiana.

Juliana Deguis Pierre, nata in Repubblica Dominicana 28 anni fa da genitori haitiani, aveva presentato infatti ricorso a questa corte   contro una sentenza di un Tribunale Civile che le  aveva negato la restituzione del documento d’identità dominicano sottrattole tempo fa da un funzionario della Giunta Centrale Elettorale. Juliana, nata e cresciuta in Repubblica Dominicana, non è mai stata ad Haiti nemmeno in vacanza e fino ad oggi pensava di essere cittadina dominicana. Il  Tribunale Costituzionale era l’ultima istanza alla quale la giovane aveva fatto appello, sperando di concludere così positivamente la sua odissea iniziata nel 2008, quando l’ufficio del registro pubblico dove si era presentata per ottenere il documento di identità, non solo glielo aveva negato ma le aveva sottratto anche  il  certificato di nascita sulla base di irregolarità nella posizione migratoria dei genitori haitiani.

La sentenza del tribunale inoltre, violando la stessa Costituzione dominicana (art.110) che sancisce esplicitamente l’ irretroattività della  legge, ha dato  disposizione all’organo elettorale di istituire  un registro di tutti i cittadini dominicani di discendenza haitiana nati dal  1929 ad oggi. La situazione di ognuno  – almeno di quelli ancora in vita, si tratta infatti di circa  tre generazioni di persone – sarà  attentamente valutata e poi inoltrata al  Ministero dell’Interno e Polizia per l’applicazione di quanto stabilito da un Piano Nazionale di Regolarizzazione che le autorità stanno approntando.

Le conseguenze di tutto ciò non sono ancora chiare ed è difficile prevedere cosa accadrà a quanti non riuscissero a dimostrare la legalità della posizione migratoria dei loro genitori.

Molti  si troveranno a dover pagare per gli errori commessi dai loro padri o dai loro nonni o addirittura per quelli eventualmente commessi dai funzionari del Registro Civile al momento della registrazione della loro nascita, nonché per le frodi elettorali risalenti a un’epoca più moderna, quando i voti venivano scambiati con  documenti di identità. All’anagrafe inoltre, regna ancora il caos, dopo decenni di omissioni e di irregolarità di varia natura.

Soltanto il contatto diretto con le persone e le loro storie, che a tratti hanno dell’incredibile, rendono davvero l’idea della portata del problema e, quindi, del motivo per cui la sentenza ha incontrato la condanna unanime di tutti gli organismi internazionali per la difesa dei diritti umani, tra i quali la Corte Interamericana dei Diritti Umani e le stesse Nazioni Unite.

Emblematico è per esempio il caso di Juana, nata in Repubblica Dominicana, nella provincia di Elías Piña, alla frontiera con Haiti nel 1970 da genitori haitiani. Il padre alla fine degli anni ’60 era venuto in questo paese con sua moglie in cerca di una vita migliore e aveva trovato  lavoro in una delle tante aziende agricole della zona che allora in vario modo incentivavano l’immigrazione haitiana per necessità di manodopera a basso costo.

In quegli anni l’ingresso degli  haitiani, da utilizzare come braccianti agricoli stagionali, soprattutto nel settore della canna da zucchero, era regolamentato da accordi tra  le autorità dei due paesi. Il Governo dominicano concedeva agli immigranti una  ficha (un numero di registro) con la quale potevano andare, tra le altre cose, al registro civile a regolarizzare la nascita dei loro figli. Il padre di Juana ha così potuto registrare come cittadini dominicani  tutti i suoi figli. Fino al 2010 infatti, per la concessione della nazionalità vigeva  il principio dello ius solis, cambiato in jus sanguinis con la riforma costituzionale di quell’anno.

Juana oggi lavora in una villa nella zona orientale dell’isola come cameriera, alle dipendenze di una facoltosa famiglia. Vive con la sua famiglia, il marito, le  tre figlie e la madre anziana e malata a molta distanza dal luogo dove è nata e di suo padre ha perso ogni traccia. La donna per la quale lavora l’ha invitata a trascorrere un mese con lei negli Stati Uniti, offrendole il viaggio e il soggiorno. Lei vorrebbe tanto approfittare della generosa offerta ma ha il passaporto scaduto, così come scaduta è la sua cedula (carta d’identità) e quindi inizia le pratiche per il rinnovo di entrambi i documenti.

E qui iniziano  i problemi. Si rende conto che probabilmente il passaporto non le verrà mai concesso perché la sua cedula è “sospesa”, almeno così le dicono, ma  molto presto capisce  che, per quanto paradossale possa sembrare, ad essere “sospesa” è proprio la sua condizione di  cittadina dominicana.

Tutto accade praticamente verso la fine di settembre del 2013, una settimana dopo la controversa sentenza.

Nell’ufficio dove Juana si reca a rinnovare il passaporto, appena l’addetta allo sportello vede scritta (a penna) sul documento il numero di  ficha,  la indirizza presso un altro ufficio dove deve richiedere un certificato di nascita aggiornato. Anche qui la risposta che le viene data  è vaga e imprecisa e la inviano altrove. Di ufficio in ufficio, senza risolvere nulla e dopo aver speso circa 1000 pesos in trasporto pubblico (ne guadagna 8mila, circa 160euro), l’unica cosa che ha capito è che al momento della registrazione della sua nascita sono stati commessi degli errori per cui il numero di carta d’identità di suo padre corrisponde a quello di un’altra persona e così è anche per sua  madre. In pratica i suoi genitori almeno legalmente, non sono quelli che lei riteneva tali. L’errore può essere stato fatto anche successivamente, durante il processo di informatizzazione dei registri (si stima che buona parte del  registro civile, almeno per quello che riguarda le registrazioni effettuate in passato, sia viziato da errori di questo tipo): può essere stato un semplice errore di trascrizione o,  come spesso accade anche oggi, il padre avendo avuto difficoltà nella registrazione per via della sua condizione di migrante, abbia chiesto il “favore” ad altre persone.

Di casi come quello di Juana  in Repubblica Dominicana se ne contano a migliaia. Le difficoltà non sono solo nella concessione dei passaporti. Dal  2007, anno in cui la Giunta Centrale Elettorale  ha approvato la risoluzione n. 12  con lo scopo di “depurare” il registro civile dominicano, è iniziata una pratica sistematica di negazione della concessione dei certificati di nascita dei cittadini dominicani di discendenza haitiana. Centinaia di giovani, nati e cresciuti in Repubblica Dominicana, che negli anni  trascorsi nelle scuole di questo paese  hanno cantato ogni mattina l’inno nazionale dominicano e che hanno imparato l’amore e il rispetto per questa Patria che considerano la loro, si sono visti negare la concessione – al compimento della maggiore età – del documento necessario per l’iscrizione  all’ università. Centinaia di persone che hanno esercitato sempre regolarmente  il diritto al voto, professionisti, maestri, agenti di polizia, avvocati, che improvvisamente non sanno più a quale paese appartengono perché lo Stato gli sta negando la cittadinanza  della quale hanno goduto fino a  questo momento, ma che non sono e non si sentono nemmeno haitiani, perché  nella maggior parte dei casi Haiti è solo quel paese “che sta dall’altra parte dell’isola”.

I casi sono tanti e diversi fra loro, ma fra tutte le  persone colpite in qualche modo dalla risoluzione n. 12 della Giunta Centrale Elettorale prima e dalla sentenza 168/13 del Tribunale Costituzionale poi – si stima siano oltre duecentomila – i sentimenti predominanti sono la paura e la disillusione.

Zoraida ad esempio, è figlia di un cocolo (così vengono chiamati gli immigrati discendenti dagli schiavi africani provenienti dalle isole inglesi del Caribe  portati  in Repubblica Dominicana come braccianti agricoli alla fine del XIX secolo) e di una donna haitiana. È nata  qui, possiede il suo documento d’identità dominicano, ha sempre votato, ma ora ha paura che glielo tolgano.

Anche Angel è iscritto nel registro dominicano e ha regolari documenti, ma risulta  iscritto anche ad Haiti perché al momento della sua nascita, avvenuta in un paesino della Repubblica Dominicana vicino alla frontiera, qualche parente si prese la briga di registrarlo anche ad Haiti, per qualsiasi evenienza. Cosa sarà di lui e dei suoi figli, che ormai adolescenti vivono e studiano qui, e qui hanno la loro vita?

C’è inoltre da aggiungere che nel vicino paese la situazione anagrafica è anche peggiore di quella della Repubblica Dominicana. Dopo il terremoto del gennaio 2010, quel poco di registro  civile esistente è andato completamente perduto e distrutto. Le persone con le loro case, hanno perso tutto, anche i documenti.

La tratta umana resta comunque la grande sfida alla quale devono far fronte i due governi nel momento di decidere la strategia da intraprendere  per risolvere il problema della migrazione illegale.

Attraverso la frontiera, estremamente permeabile, e spesso grazie alla corruzione dilagante tra le autorità preposte dei due paesi,  entrano non solo uomini da impiegare illegalmente come manodopera a basso costo e senza diritti nel mercato del lavoro, ma anche bambini, che una volta raggiunta la Repubblica Dominicana non possono più essere deportati e che saranno  utilizzati dalla criminalità organizzata come manovalanza, per strada come mendicanti o nei mercati del sesso. O donne, che  verranno  sfruttate nella prostituzione o al  limite della schiavitù nei lavori domestici. In ogni caso  invisibili, senza diritti, senza protezione, metteranno al mondo moltitudini di bambini che finiranno per crescere  in completa solitudine e miseria, perché qui, in pieno medioevo moderno, dove la Chiesa cattolica e le miriadi di Chiese evangeliche decidono e amministrano i corpi e le anime di ognuno come se fossero  patrimonio personale, parlare di politiche di controllo delle nascite è  ancora un tabù e di aborto libero e gratuito, una vera e propria eresia. Tanto è vero che quasi tutte le varie organizzazioni internazionali che si occupano dei migranti, evitano il tema.

Ma la Repubblica Dominicana non è solo terra di arrivo e di speranze. Sempre più spesso ultimamente, per i migranti haitiani  sta  diventando  territorio di transito. Mentre  fino a  pochi anni fa la migrazione illegale via mare verso la vicina Porto Rico o verso le isole inglesi del Mar dei Caraibi come  le Turks e Caicos era prerogativa dei dominicani, sta aumentando esponenzialmente il numero  degli haitiani che condividono con loro il difficile viaggio. Dopo aver pagato ai trafficanti  cifre che vanno dai mille ai duemila dollari,  in fragili imbarcazioni cercano di attraversare i 130 km del pericolosissimo (a causa di forti correnti e banchi di sabbia) canale della Mona che separa le coste della Repubblica Dominicana da quelle di Porto Rico.

Parecchi vengono arrestati ancora prima di iniziare la traversata, altri all’arrivo a Porto Rico, dove vengono immediatamente  deportati verso il loro paese di origine. Molti, moltissimi non ce la fanno. Le tiepide acque del Mar dei Caraibi saranno la loro tomba.

 

 

* Commissione Nazionale per la Difesa dei Diritti Umani (CNDH) Repubblica Dominicana 

 

Lascia un commento Trackback URL: