Grattieri Francesco

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Grattieri Francesco:

Nel luglio 2001 durante i fatti di Genova era dirigente del Servizio centrale operativo (Sco).  Il più alto in grado alla caserma “degli orrori” Diaz.

Sua la famosa frase “Le perquisizioni non si fanno con i guanti”.

Sotto processo per lesioni personali, falso, calunnia e abuso di ufficio.

Nonostante ciò in questi sei anni ha fatto carriera: fu nominato questore di Bari e da fine anno è il direttore della Direzione centrale anticrimine.

P.S. Dov’è la commissione d’inchiesta su Genova prevista dal programma dell’Unione?

 

Fonti:

Comitato Verità e Giustizia per Genova

Distratti dalla libertà


George W. Bush: “Adesso si cambia rotta”.

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http://maurobiani.splinder.com/


Liberato Fredy Muñoz!

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FREDY MUÑOZ LIBERO!

Dopo 52 giorni di prigionia è stato rilasciato ieri, 9 gennaio, il corrispondente dalla Colombia di Telesur, Fredy Muñoz. Si trovava nel carcere di Barranquilla. La Fiscalía colombiana ha dichiarato insufficienti le prove a suo carico che consistevano esclusivamente in dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia attualmente in stato di detenzione.
Uno di questi testimoni, Yainer Rodriguez Vásquez ha affermato inoltre di aver ricevuto minacce e intimidazioni dai servizi segreti colombiani affinché depositasse testimonianza contro persone a lui sconosciute tra le quali Fredy Muñoz.
Quanto accaduto a Fredy ricorda il caso del sociologo colombiano e professore universitario Alfredo Correa de Andreis, che fu accusato e messo in carcere con le stesse modalità e le identiche accuse rivolte a Fredy Muñoz e che dopo essere stato rilasciato fu assassinato circa due anni fa a Barranquilla, regno dei paramilitari fedeli a Jorge 40.
Per questo sia Fredy che i suoi cari temono per la sua incolumità dal momento che il processo va avanti e non sono state formalmente ritirate le accuse a suo carico.
C’è da aggiungere che tutto ciò accade in un momento di particolare tensione politica e sociale in Colombia in cui sempre più evidenti appaiono i legami tra politica e narco-paramilitarismo e sempre più violente si fanno le pressioni contro i giornalisti e i mezzi di comunicazione che li denunciano. Particolarmente evidente è stato il tentativo di criminalizzare Telesur cercando di limitare così la sua influenza in Colombia attentando direttamente al cuore del nuovo processo di integrazione latinoamericana che l’emittente rappresenta.

Fonte:TELESUR

Articoli precedenti sul caso Fredy Muñoz:

Attacco Colombiano a Telesur 21/11/06

Breve aggiornamento sul caso 25/11/06

Lettera a

La Repubblica  23/11/2006

 

 

 

 


Giornale comunista? — Lettera a Liberazione

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Gentile Direttore Piero Sansonetti

Le scrivo a proposito della recente intervista di Angela  Nocioni a Massimo D’Alema apparsa sulla prima pagina di Liberazione del 3/01/07 dove la giornalista con una caduta di stile degna del peggior Omero Ciai di La Repubblica,  dall’alto di chissà quale piedistallo ed evidentemente ignorante in materia di economia politica,  si permette di definire la redistribuzione della ricchezza “un’elemosina ai poveri”, tanto che lo stesso D’Alema è stato costretto a darle una brevissima lezione in merito, spiegandole che “redistribuire la ricchezza è uno dei compiti principali degli Stati moderni”.  Sicuramente la scuola di

La Repubblica che

la Nocioni sempre più spesso sta frequentando dà i suoi frutti. Toni così sprezzanti e offensivi sono propri del buon Omero Ciai, che tanto per dirne una,  il  3 dicembre scorso, da Caracas dove si trovava in occasione delle elezioni,  si è permesso di definire il popolo venezuelano “sussidiato e fannullone” descrivendolo come una massa inetta capace solo di vivere di sussidi.

Ora se argomentazioni del genere trovano spazio su

La Repubblica  certamente non fa   meraviglia più a nessuno ma come è possibile che li ritroviamo anche sulla prima pagina di un quotidiano che si vanta di essere comunista?

Annalisa Melandri

Roma

 

testo integrale dell’intervista a Massimo D’Alema qui  

sull’articolo di Ciai del 3/12/06 cosa dice Annalisa   qui

inoltre sempre sull’intervista di Angela Nocioni a Massimo D’Alema vi consiglio il post di Gennaro  Carotenuto con un’intervista a Tito Pulsinelli qui

 


Il governo del Perù accusato di crimini di guerra e l’estradizione di Fujimori è sempre più vicina.

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Tempi duri per il governo del Perù e particolarmente per l’ex presidente e dittatore Alberto Fujimori attualmente detenuto in Cile e del quale il Perù attende da mesi l’estradizione. Con due sentenze del Tribunale Interamericano per i Diritti Umani, con sede in Costa Rica  emesse a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, sembra avvicinarsi sempre di più il momento per poter rendere finalmente giustizia alle  vittime della dittatura di Fujimori. Quella più importante,  del 21 dicembre scorso e che ha  già causato grande clamore, nonché la disapprovazione dell’attuale presidente del Perù Alan García,  condanna lo stato peruviano per crimini di guerra.

Questa  sentenza può già considerarsi  storica perché è la prima volta che viene applicata la convenzione di Belem do Parà redatta nel 1994 per prevenire, condannare e combattere  la violenza sulle donne e per la prima volta dallo stesso tribunale la violenza sessuale contro una donna viene intesa secondo i canoni del  diritto internazionale. La sentenza riguarda i fatti accaduti  nel penitenziario  di Miguel Castro Castro di Lima tra  il 6 e il 9 maggio 1992, allora  presidente Fujimori,  dove con  un’operazione militare in piena regola  furono giustiziati 42 detenuti, 175 furono feriti e 322 furono torturati, giustificando agli occhi del paese tanta violenza con il tentativo fallito, a causa di un’insurrezione tra i detenuti,  di trasferire le donne accusate di terrorismo in un altro carcere.

In effetti i penitenziari peruviani, in quegli anni affollati di dirigenti, attivisti e semplici simpatizzanti  dei gruppi eversivi Sendero Luminoso e Túpac Amaru erano in una situazione di sovraffollamento e mal gestiti dall’autorità giudiziaria, per cui nel 1991 si autorizzò l’ingresso delle forze armate nelle prigioni. I problemi maggiori si avevano all’interno del penitenziario di Miguel Castro Castro, dal quale i ribelli riuscivano comunque a portare avanti la loro  attività eversiva.  

Il legale dei 300 detenuti vittime di torture, Mónica Feria, lei stessa ex detenuta e  sopravvissuta al massacro,  è riuscita a dimostrare al Tribunale Interamericano per i Diritti Umani, dopo 10 anni di discussione del caso, che in realtà il trasferimento dei detenuti fu solo un pretesto per effettuare decine di esecuzioni sommarie dei capi dei gruppi ribelli che si trovavano a quel tempo in carcere. Fu usato allo scopo un vero e proprio arsenale di guerra, incluse armi chimiche tra cui il fosforo bianco. Molte delle donne detenute erano in avanzato stato di gravidanza e fu rifiutato espressamente dal governo peruviano nella persona dell’ex presidente Alberto Fujimori, l’intervento sia della Croce Rossa Internazionale che di vari organismi internazionali per la difesa dei diritti umani.

Il Tribunale Interamericano  ha riconosciuto colpevole lo stato peruviano per la violazione dei diritti umani e in particolar modo per quelli delle donne  (per cui è stata applicata la convenzione di Belem do Pará), “le quali sono state colpite dagli atti di violenza in modo differente rispetto agli uomini e  alcuni atti violenti sono stati diretti  loro in quanto donne”. Sono stati riconosciuti  dal giudice Cancado Trindade casi di violenza pre-natale in quanto alcune vittime erano  in stato di gravidanza che sicuramente hanno causato traumi prenatali nei  nascituri, la cui entità è difficilmente valutabile.

Alle violenze subite da queste donne è stato riconosciuto inoltre il carattere di continuità in quanto sono proseguite anche in seguito alla conclusione dell’operazione militare. Alcune di essere sono state ripetutamente violentate e nei mesi successivi sono state tenute in regime di stretto  isolamento nonostante avessero bisogno di cure.

La seconda sentenza, del 29 novembre 2006, condanna invece lo stato peruviano, per il caso di 

La Cantuta ”  riconoscendolo colpevole del massacro del professore Hugo Muñoz Sánchez e di nove suoi studenti dell’Università Nazionale “Enrique Guzmán Valle”  (

La Cantuta ) avvenuto il 18 luglio 1992  sempre durante la presidenza di Alberto Fujimori. Il professore e gli studenti furono prelevati da militari appartenenti al gruppo paramilitare Colina, facente capo a Vladimiro  Montesinos e dopo essere stati giustiziati furono sepolti in una fossa comune e i loro corpi ritrovati solo mesi più tardi. Il caso di  

La Cantuta è uno dei crimini per i quali è stata  richiesta l’estradizione di Alberto Fujimori nel 2003 dal Giappone e successivamente  nel  gennaio 2006 al governo del Cile, il quale ora, come paese membro del Tribunale Interamericano per i Diritti Umani non potrà  non prendere atto di queste due sentenze e negare ancora l’estradizione di Fujimori. Il verdetto del tribunale cileno sull’estradizione  è atteso per marzo 2007.

E per un ex presidente e dittatore,  che vede sempre più vicina la possibilità di finire in prigione nel paese dove ha commesso i suoi crimini più efferati , ce n’è un altro, quello in carica, evidentemente in calo di popolarità, che responsabile anch’egli di numerosi crimini durante il suo  precedente mandato (1985–1990),  teme un giorno di poter fare la stessa fine del suo collega e infatti condanna a gran voce la sentenza del Tribunale Interamericano dei Diritti Umani relativa al caso del penitenziario Miguel Castro Castro,  affermando che non è disposto in nessun modo ad adempiere all’obbligo prescritto in essa di rivendicare pubblicamente la responsabilità dello stato nel massacro, ritenendo inappropriata una sentenza che dia risarcimenti e indennizzi a criminali terroristi.

García forse non sa che i diritti umani si applicano ANCHE ai detenuti. E  che torturare un essere umano è SEMPRE un crimine.


Buon Anno.

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Io vi faccio i miei più sinceri auguri di un felice Anno Nuovo e vi invito a festeggiare l’arrivo del 2007 come meglio ritenete più opportuno.

Vi rammento però che Benedetto XVI in un ulteriore ingerenza in un evento che non ha nulla di religioso come i festeggiamenti di Capodanno ammonisce che la fine dell’anno non va attesa solamente con “riti mondani” ma rifacendosi alla Vergine Maria.

Egli ha detto che “nelle ultime ore di ogni anno solare, assistiamo al ripetersi di taluni riti mondani che nell’attuale contesto sono prevalentemente improntati al divertimento, vissuto spesso come evasione dalla realtà, quasi ad esorcizzarne gli aspetti negativi e a propiziare improbabili fortune”.

Quindi mi raccomando niente mutandine rosse, niente dodici chicchi d’uva, niente lenticchie, niente baci sotto il vischio, niente “chi non lo fa a capodanno non lo fa tutto l’anno”…


Voci del coraggio a Oaxaca — Violazioni dei diritti umani delle donne nel conflitto sociale e politico

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PRIMA PARTE

Dedico questa parte del diario messicano a mi amiga Monique Camus, valiente y sensible mujer oaxaqueña.

 

Ricevo tramite mail da parte di Sara Méndez, de

la Red Oaxaqueña de Derechos Humanos la prima edizione dell’opuscolo “Voci del coraggio a Oaxaca. Violazioni dei diritti umani delle donne nel conflitto sociale e politico” prima edizione del 10 dicembre 2006.

Lo tradurrò per il diario messicano in più riprese in quanto si compone di varie sezioni. La versione originale si può scaricare in formato pdf da qui. Credo che sia interessante perché al di là di quanto già è stato detto sulla situazione politica attuale in Messico  che chiunque sia dotato di buona volontà a questo punto dovrebbe già conoscere, al di là anche degli episodi di violenza più eclatanti che si sono verificati in questi ultimi mesi a Oaxaca, ci sono poi aspetti  e modalità diverse della repressione di cui se notizie generiche vengono fornite dalla stampa straniera nessun riferimento appare su quella italiana o europea. Possiamo solo immaginare che sulle donne  la repressione sia stata particolarmente cruda e violenta, possiamo immaginare con  quali modalità essa sia stata attuata, ma l’immaginare soltanto non rende giustizia a queste donne che con coraggio e determinazione stanno portando avanti una battaglia che è iniziata ancor prima del verificarsi degli incidenti di Oaxaca. E proprio per questo,  per la loro determinazione e per il loro coraggio sono state duramente colpite. Un donna che protesta e lo fa a volto scoperto fa più paura di un uomo  perché nei suoi occhi si  legge un dolore antico. 

INTRODUZIONE

“Se non abbiamo un luogo dove si possa vivere con dignità e giustizia, non possiamo vivere da nessun parte” cita enfaticamente Leyla Centeno mentre racconta la storia della sua partecipazione al movimento e di come si sono organizzate le donne per conquistarsi un proprio spazio e un riconoscimento all’interno del movimento sociale sorto a Oaxaca  a partire dal conflitto che da sei mesi monopolizza la società.

Il movimento sociale di Oaxaca ha la consapevolezza  che, come spiega  Leyla, la dignità è qualcosa  di intrinseco all’essere umano, e  che  devono esistere  diritti  che devono essere garantiti dallo Stato affinchè siano reali. Di fatto queste  garanzie sono state violate e perfino cancellate da un governo autoritario e sordo alle necessità dei suoi cittadini e cittadine e per questo uomini e donne lottano per far sì che le persone possano vivere degnamente: rispetto, libertà, sicurezza personale, integrità, autonomia, giustizia e uguaglianza.

Oaxaca è uno stato multiculturale, con caratteristiche geografiche, ambientali e di sviluppo molto diverse.

È il terzo stato più povero del Messico  e concentra la maggior parte della popolazione indigena  del paese, con 16 etnie che rappresentano il 31% delle 52 che esistono in Messico.

Oaxaca si è caratterizzata per avere un sistema di governo monopartitico da più di mezzo secolo.  Il Partito  Rivoluzionario Istituzionale (PRI) nell’agosto 2004 vinse le elezioni per il rinnovo del locale Congresso  e per  la nomina del Governatore in un clima di scandali e accuse di corruzione e di discussione sociale e giuridica tra  i diversi soggetti politici e  i cittadini e le cittadine.

La disuguaglianza sociale, politica ed  economica accumulata nel corso della storia, insieme con la crisi della  transizione democratica, hanno  oggi come una delle ultime conseguenze  un contesto di corruzione, impunità e violazione dei diritti umani e colpiscono sempre di più le popolazioni indigene e particolarmente le donne.

Voci del coraggio a Oaxaca. Violazioni dei diritti umani delle donne nel conflitto sociale e politico, rappresenta  uno sforzo collettivo delle  donne dei coordinamenti  della società civile di Oaxaca ed è appoggiato da un gran numero di donne e organizzazioni, scritto con il fine di essere uno strumento di denuncia delle violazioni dei diritti umani delle donne.

Inizia con una breve descrizione del ruolo che queste hanno giocato nel movimento sociale.

Racconta  storie che non sono ancora Storia, non solo perché non sono ancora state scritte ma perchè non sono storie definite, periodi terminati, ma sono storie ancora aperte, in svolgimento o che reclamano ancora giustizia . Storie che sono piene di donne con i loro mormorii, le loro grida e il loro dolore. Voci di donne che rompono il silenzio e che ci danno una lezione di resistenza, di lotta, di organizzazione, di partecipazione sociale e di coraggio. Insieme denunciano e chiariscono gli aspetti differenti del tipo  di violenza esercitata contro di esse  e che condizionano la loro vita.

La prima parte di questo materiale racconta le storie di quattro donne, i cui avvenimenti  accadono in un momento storico anteriore al conflitto  degli ultimi mesi e riflettono la situazione cronica dell’abuso di  potere da parte del PRI al governo, violazioni commesse contro donne in quanto tali o per la loro etnia, per pratiche dispotiche  o per il malfunzionamento delle istituzioni. Nella seconda parte si trovano dieci  delle   migliaia di voci di donne di Oaxaca che  hanno infranto il silenzio. Ci mostrano come si sono organizzate in questi ultimi sei mesi di conflitto per conquistarsi un proprio spazio ed essere attrici principali del movimento sociale. Le loro voci ci raccontano come direttamente o indirettamente sono state  colpite nei loro diritti fondamentali e quanto coraggio hanno avuto  per affrontare situazioni di pericolo e di difficoltà. Le voci unite creano un clamore. La voce di ognuna di queste donne  desidera  essere ascoltata  da tante altre; affinchè sia  clamore, con le loro voci e le vostre:  fermiamo questa Tragedia, questa Impunità, questa Infamia.

Voci del  coraggio a Oaxaca vuole  essere un clamore per

la Giustizia contro il silenzio e  per

la Libertà.

Abbiamo la convinzione che sommando gli sforzi possiamo poco a  poco far sì che Oaxaca sia un luogo dove tutte le persone in particoalre le donne possano vivere con dignità e giustizia e come dice lo slogan femminista: che possano camminare senza paura per le strade.

CONTESTO

Sei mesi di resistenza pacifica  a Oaxaca. Un movimento sociale emergente nel quale la partecipazione delle donne è stata fondamentale. Protagoniste e partecipi di centinaia di azioni pubbliche, di resistenza e di discussione, difenditrici dei diritti dei familiari vittime delle violazioni ai loro diritti individuali e voci levate contro la impunità. Senza l’apporto delle donne, questo movimento senza dubbio sarebbe la metà  in numero e in importanza  di ciò che è stato.

Loro, le colone, le indigene, le contadine, le maestre, le femministe, le casalinghe, le studentesse, tutte hanno contribuito a tessere la storia odierna  di questa organizzazione  e forse del Messico intero. Dall’audace e insospettata presa della televisione statale e di diverse stazioni radio che sono state le principali vie di comunicazione e di articolazione del movimento, fino al sostegno dei presidi e delle barricate che sono servite come protezione agli  operativi notturni dai  gruppi di banditi  del governatore che in distinte occasioni hanno attaccato la popolazione. Dall’organizzazione dei fori di discussione fino al  dar voce alle atrocità.

È noto che questo capitolo  della storia inizia il 14 giugno del 2006, giorno dello sgombero violento del presidio dei maestri nello zócalo di Oaxaca, le offese  per lungo tempo accumulate nella storia del popolo di Oaxaca hanno causato la crisi. Il discoso della governabilità e della democrazia a Oaxaca , come una cortina di fumo, si è dissolto per mostrare strade piene di centinaia di migliaia di pugni indignati, di voci che in coro ci hanno sorpreso con la loro tenacia: “È caduto, Ulises è  già caduto!” Sintesi ultima delle richieste sociali, del debito storico con uno dei popoli  più poveri, violentati e dimenticati del Messico.

Si sono sommati  allora il rifiuto popolare al tentativo  di sgombero e le richieste irrisolte di diversi settori e movimenti sociali: gli indigeni, i contadini, le donne e i sindacati tra gli altri. È sorta così l’Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca (APPO) richiesta ampia e plurale che raggruppa gran parte del movimento sociale.

E se il fattore unitario è stato la richiesta di dimissioni di  Ulises Ruiz, il pensiero e l’ideale collettivo hanno girato  intorno alla trasformazione profonda di Oaxaca. Trasformazione politica, sociale, che restituisca realtà alla Democrazia, alla Giustizia, ai Diritti Umani, l’Uguaglianza tra uomini e donne,

la Non Violenza e

la Non Discriminazione.

E a Oaxaca il popolo, cioè le donne con le loro stoviglie,  gli indigeni e le indigene, i giovani impulsivi, gli anziani e le anziane dal passo lento e la saggenzza antica, sono i creatori e le creatrici  delle barricate, delle marce di massa. Sono coloro i quali hanno espresso  il loro consenso nelle  riunioni e nei dibattiti; coloro i quali integrano le organizzazioni e nominano i rappresentanti per il tavolo unitario di negoziazione  con

la Segreteria del Governo.

Per le donne la crisi ha rappresentato un’opportunità. Centinaia di migliaia sono uscite per le strade e hanno reclamato spazi e  tempi negati loro fino a questo momento. L’organizzazione delle Donne di Oaxaca Primo Agosto è un esempio concreto, un mezzo di partecipazione di donne del popolo, formatosi  per potenziare la loro presenza e azione  all’interno del movimento stesso.

Ciò nonostante, la mobilitazione pacifica, spalla a spalla, la protesta motivata, l’iniziativa davanti al Congresso hanno dato frutti indesiderati: più di seimila effettivi della Polizia Federale Preventiva (PFP) occupano dal 29 di ottobre il centro storico della città di Oaxaca; si contano già 17 morti, 450 detenuti e detenute, ci sono ancora 30 casi di persone scomparse, innumerevoli feriti e persone prelevate dalle loro stesse abitazioni.

Tra le vittime della repressione si contano  decine di donne detenute, scomparse, minacciate e picchiate. Ci sono anche tutte quelle che hanno subito conseguenze per la repressione e per l’assassinio dei loro familiari.

Proprio  il 25 novembre scorso, paradossalmente,

la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, è stato il giorno di repressione più dura di tutto questo periodo e si stima che siano  13  le donne scomparse,  41 le detenute  e  ci sono denunce di torture e di trattamenti disumani.

Ci sono leader del movimento minacciati e arrestati, difensori dei diritti umani perseguitati, giunge voce che ci siano  più di 200 ordini di apparizione e un clima generalizzato che sembra più corrispondere agli anni ’ 70 che non al XXI secolo.


Considerazioni di fine anno.

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Immagine di AURELIO ANTONA

Ascoltando: Papá cuentame otra vez — Ismael Serrano

Welby è morto, ha perfino concordato con il suo medico quando iniziare la somministrazione della sedazione, lui non avrebbe voluto essere sedato per poter rendersi conto di morire,  “mi devo concentrare sulla mia morte, è la prima volta che muoio”, avrebbe detto,  ma la prassi….e poi un freddo comunicato per informare il mondo del decesso.
Forse c’erano altre modalità per sollevare il problema, molto più intime e riservate, senza coinvolgere i politicanti, forse c’era un altro modo  per morire, magari per mano di chi tanto ci ha amati, come sicuramente avviene molto più spesso di quanto si pensi con la complicità del   silenzio notturno delle corsie degli ospedali.. A me  non  sarebbe piaciuto morire al cospetto di Pannella…ma chissà chi ha scelto veramente , se lui, se i suoi cari, se la politica o l’opinione pubblica. Andava sollevato il problema, andavano mosse le acque…
Comunque sia è morto ed ha smesso di soffrire e sono sicura che se un Dio c’è, ora lo sta tenendo tra le braccia. E se un Dio c’è sicuramente ha già tirato le orecchie al suo severo e arcigno  ministro.
Già il suo ministro, sempe più severo, sempre più in alto, sempre più lontano da tutti noi (almeno da me sicuramente)  ma sempre più vicino ai palazzi del potere e della politica. Come nel Medioevo. Perché non vedere nel mancato rifiuto dei funerali cristiani a Welby un chiaro monito ai politici? Attenti a voi, se vi azzardate a pensare solamente alla legge sull’eutanasia… tutti dannati all’Inferno!! Un ministro di Dio  sempre più lontano da quel sentimento di cristianità che è necessario e che è ancora più necessario quando un  figlio sbaglia. Se Welby ha sbagliato secondo la dottrina cristiana dov’è finito il sentimento di pietà e di perdono che vuole essere fondamento della cristianità? Non ho ancora risolto i miei dubbi religiosi, devo ammetterlo, forse non lo farò mai,   non so se credo o no in Dio, ma di certo mi rifiuto di credere in un Dio vendicativo e rancoroso. Il mio Dio se esiste,  in questo momento sta abbracciando Piergiorgio e sono sicuro che con lui lo stanno facendo tanti altri Dei  sparsi lassù nei cieli. C’è stato un momento in cui la vicenda di Welby  mi ha portato alla  mente una scena di Garage Olimpo in cui gli aguzzini torturtori al servizio della dittatura si accanivano ancor di più sulle vittime quando a queste venivano trovate delle capsule di cianuro da ingerire se le le torture fossero diventate insopportabili, “non hai il diritto di decidere quando morire, siamo noi che lo decidiamo per te” e giù botte! Forse il paragone è azzardato ma in realtà è quello che è accaduto a Welby  e che accade con tanti altri nelle sue stesse condizioni. Non avevi il diritto Welby di decidere quando morire, quando porre fine alla tortura che era diventata la tua vita.
Perché Giovanni Paolo II ha potuto decidere liberamente che non gli fosse attaccata la spina e Welby non ha potuto decidere di togliere quella stessa spina, senza incorrere nella punizione del ministro di Dio? Cambia qualcosa nell’atto di inserirla o in quello di toglierla? In ambedue i casi c’è un andare incontro alla morte serenamente e soprattutto naturalmente, in ambedue i casi c’era una volontà da rispettare..
Saddam sta per essere giustiziato e il ministro di Dio  non si pronuncia, ma come? Si nega a Piergiorgio il lasciapassare per il cielo ammesso che lui ne abbia avuto bisogno e non un parola, un cenno,  un invito alla preghiera a chi ha emesso una condanna a morte, al boia che la eseguirà, a Bush che ne gioisce pubblicamente e che solo per questo dovrebbe esseer scomunicato all’istante?  Niente di niente? Non c’è nulla di più ipocrita  della morale e in particolare della morale cristiana.  Ma se lo sanno anche gli stolti  che questo processo è una farsa e la condanna ancor di più, certo meglio farlo fuori subito prima che possa raccontare al mondo dei suoi affari con i Bush.
Il mondo impazza per Natale, viaggi, regali, spostamenti e i Nigeriani per poche gocce della loro benzina… saltano in aria. Già morire carbonizzati a Natale per poche gocce di benzina … quella che non hanno perchè paradossalmente anche se si tratta dell’ottavo paese esportatore di greggio   al mondo, ai nigeriani costa carissima e coì per poter guadagnare qualcosa al mercato nero con una tanica di benzina  devono bucare le condutture degli oleodotti e tutti lì  a fare la festa intorno a quegli spruzzi per pochi dollari fino a che non arriva magari uno con una sigaretta accesa … saltare in aria per una tanica di benzina, certo che si può.
Ah  dimenticavo, Pinochet, non lo vuole più nessuno, pare che sia più ingombrente da morto che da vivo, nemmeno l’esercito vuole le sue ceneri, ma a lui che importa oramai,  il suo lasciapassare per il cielo lo ha avuto.
 
Consiglio i due post più belli su Piergiorgio Welby, l’articolo “Migliaia di Welby crocifissi tra Pannella e Ratzinger”  di Gennaro Carotenuto che come sempre unisce  magistralmente denuncia e riflessione, cuore e ragione,   e quello del fotografo  Fabrizio Pecori che dedica a Welby, ma senza fare il suo nome,  il suo “silenzio bianco”.

L’operazione psicologica dell’ambasciata USA in Perù

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Da una recente inchiesta del El Commercio, risulterebbe che la popolarità del presidente peruviano Alan García negli ultimi sei mesi, abbia registrato un calo di consensi pari a 17 punti.
Le sue roccaforti continuano ad essere Lima e la costa nord, dove tra l’altro ha ottenuto il maggior numero di voti nelle recenti elezioni presidenziali del maggio scorso.
Varie sono le interpretazioni: secondo l’analista politico Eduardo Toche questa tendenza è dovuta al fatto che la popolazione inizia a esigere l’applicazione di misure governative che possano dare risultati concreti a breve termine.
Altri analisti invece credono che la caduta di popolarità del presidente sia dovuta in realtà al fatto che il popolo lo sente troppo vicino alla destra, troppo interessato alla risoluzione dei problemi dell’oligarchia del paese e veramente troppo onnipresente nei mezzi di comunicazione, quasi come un “maestro di cerimonie”.
Probabilmente hanno avuto un ruolo importante anche le pressioni che sta portando avanti con il Congresso per il ripristino della pena di morte contro i terroristi e lo scandalo che lo ha coinvolto poco tempo fa quando si è visto costretto al riconoscimento di un suo figlio nato fuori dal matrimonio e di cui aveva sempre negato l’esistenza.
Alla luce di tutte queste interpretazioni appare quindi quanto meno senza fondamento la denuncia fatta dall’ambasciata statunitense a Lima secondo la quale esiste un complotto organizzato da imprenditori della destra e da militari per attentare alla vita di Alan García.
Ci sono in merito, alcune considerazioni importanti da fare.
Innanzitutto il rapporto dell’ambasciata statunitense è stato divulgato dalla televisione tramite il Canal N che appartiene alla stessa famiglia proprietaria del quotidiano El Commercio. Secondo questo rapporto, il piano per assassinare Alan García è stato ideato nel mese di ottobre 2006 e dovrebbe essere messo in pratica a Gennaio 2007 con la modalità di un attentato all’aereo presidenziale in uno dei viaggi del presidente in Perù. Questo piano sarebbe stato messo in atto per la crescente preoccupazione da parte di alcuni settori dell’imprenditoria riguardo al fatto che il presidente possa tradire i loro interessi.
L’ambasciatore degli Stati Uniti a Lima ha subito fatto dietrofront affermando che la delegazione diplomatica del suo paese “non considera credibile” l’ipotesi dell’attentato a García ma che ha semplicemente “trasmesso la sua preoccupazione alle autorità peruviane”, le quali dal canto loro hanno avviato le indagini ma hanno seri dubbi sulla veridicità delle affermazioni.
Verrebbe da pensare che il lupo perde il pelo e non il vizio.
E’ evidente una goffa e traballante intromissione da parte della diplomazia degli Stati Uniti negli affari interni del Perù. E’ evidente che per questo viene utilizzato sfacciatamente un mezzo televisivo, infatti non si capisce come un rapporto diplomatico di “intelligence” che dovrebbe avere carattere di massima segretezza possa essere letto per televisione.
Alla fine è evidente, vista la premessa, anche lo scopo di tutto ciò. Dal momento che la popolarità del presidente Garcia è in calo dopo soli sei mesi dalle elezioni e dal momento che settori via via più ampi della popolazione scendono in campo sempre più a voce alta contro García e l’APRA si rende necessaria “un’operazione psicologica”.
Luis Arce Borja direttore de El  Diario Internacional, dalle pagine del suo giornale, ce ne spiega il significato: “le operazioni psicologiche … si applicano in momenti di acuta crisi economica e di fragilità dello stato oppressore, cioè quando la fame, la miseria, la disoccupazione, la sottoccupazione, la miseria estrema aumentano in maniera vertiginosa e i cui effetti accelerano la lotta di classe”
Ora convertire “García Pérez da carnefice in vittima” può essere una operazione psicologica studiata a tavolino. Farlo passare da vittima dell’oligarchia quando in realtà la rappresenta fino in fondo è senz’altro un’operazione psicologica che dovrebbe insinuare questo dubbio nel popolo: se la destra lo vuole morto, evidentemente egli non è dalla parte dei ricchi e potenti, come invece noi crediamo. E come non segnalare che questa operazione psicologica ha anche lo scopo da parte della Casa Bianca di rafforzare la posizione di uno dei pochi vassalli fedeli al governo USA che rimangono in Sud America? 
“Perché uccidere la gallina dalle uva d’oro ?” si chiede Luis Arce Borja  e in effetti indicare come mandanti del complotto i militari e l’imprenditoria peruviana appare evidentemente come un gioco di fantasia, dal momento che nessuno come García difende gli interessi economici dell’oligarchia e dei gruppi di potere in Perù.
Proprio in questi giorni il El Diario Internacional sta pubblicando un lista di nominativi di bambini e bambine torturati e uccisi da militari e polizia durante il conflitto armato interno tra il 1980 e il 2000. Responsabili ne sono i governi genocidi di Belaunde, García Pérez e Fujimori.


La operación psicológica de la embajada EEUU en el Perú

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Según una recièn encuesta de El Comercio, parecería que la popularidad del presidente peruano Alan García en los últimos seis meses de gobierno hubiera registrado una tendencia a la baja de 17 puntos.

Sus  baluartes siguen siendo Lima y la costa norte, donde obtuvo los votos que le permitieron ganar en las elecciones del pasado mes de mayo.

Hay diferentes interpretacciones de esto: para el analista político Eduardo Toche esta tendencia se debe  al hecho que la población ha comenzado a exigir medidas que tengan resultados concretos a corto plazo.

Otros analistas creen que  la caída de popularidad del presidente en realidad se debe  al hecho de que la gente lo percibe  demasiado cercano a la derecha , demasiado interesado en  la resolución de sus problemas y en verdad también demasiado presente en los medios televisivos casi como un “maestro de ceremonias”. 

A la luz de esas interpretaciones parece entonces  sin fundamento la denuncia hecha por  la embajada estadunidense en el Perù según la cual existe un complot organizado por grupos empresariales de la derecha  conjuntamente  con los militares para atentar contra  la vida del presidente Alan García.

Hay unas reflexiones importantes qué hacer.   

Antes que todo la instancia de la embajada de EEUU ha sido difundida por la televisión  por medio de Canal N que pertenece a la misma familia propietaria del diarío El Comercio. Según esa instancia, el complot  para asesinar al presidente García ha sido planeado en el pasado més de octubre y debería ser realizado durante el més de   enero 2007 en la forma de un ataque al avión presidencial en uno de sus vuelos domésticos en el Perú. Ese complot  habría  sido planeado por la creciente preoccupacción de algunos sectores de el empresariado sobre la posibilidad  de que el presidente pudiera traicionar sus intereses.

El embajador de los Estados Unidos en Lima ha dado marcha atrás afirmando que la delegación diplomatica de su país “no cree posible”  la suposición  del atentado contra García pero que ha simplemente “comunicado su preocupación  a las autoridades peruanas” las cuales están investigando la veradicidad de esas noticias.

El lobo muda el pelo más no el celo.

Es evidente una desgarbada y tambaleante injerencia de parte de la diplomacia de Estados Unidos en los asuntos internos de Perú. Es evidente que para eso se utiliza atrevidamente un medio televisivo, y no se entiende como una instancia diplomática de inteligencia que debería tener carácter de secreto pueda ser leído en televisión.

Es evidente, por fin, después la premisa que hicimos, también el objetivo de todo esto. Ya  que la popularidad del presidente García registra una baja  solamente seis meses después de las elecciones y dado que que sectores siempre más extensos de la población levantan la voz contra García y el APRA se hace necesaria una “operación psicológica”.

Luis Arce Borja director de El Diario Internacional, desde esas paginas  nos explica lo que signifíca: “las operaciones psicológicas…se aplican en épocas de agudas crisis económicas y de fragilidad del Estado opresor. Es decir cuando el hambre, la miseria, la desocupación , el subempleo y la extrema miseria aumentan en forma vertiginosa, cuyos efectos aceleran la lucha de clases”.

Ahora convertir “García Pérez de victimario en victima” puede ser una operación psicológica planeada a la medida.

“Para qué matar a la gallina de los huevos de oro?” se pregunta Luis Arce Borja y efectivamente señalar a  los militares y al empresariado como los artifices del complot  parece verdaderamente como un juego de fantasia ya que nadie como García defiende los intereses económicos de la oligarquía y de los grupos de poder en el Perú.

Precisamente  en estos días El Diario Internacional está  publicando un listado de nombres de niños y niñas torturados y asesinados  por los militares y policias durante el conflicto armado interno entre el 1980 y el 2000. Culpables son los gobiernos genocidas de Belaunde, García Pérez y Fujimori.

 

 

 


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