Mail da Cochabamba

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cochabamba

Ricevo da Rafael Rolando Prudencio Briancon da Cochabamba il 5 febbraio scorso:

Annalisa, raccontandoti quello che succede a Cochabamba e ai CochaBAMBINI ti comunico che è diffuso un sentimento di frustrazione dopo che i cittadini hanno picchiato i contadini cocaleros, mossi da razzismo risentito e da frustrazioni personali.
Cochabamba è considerata il “cuore della Bolivia e del Continente” per essere situata geograficamente al centro del paese e del Sud America, oltre al fatto che accolse a braccia aperte centinaia di migliaia di emigranti giunti da altre regioni, durante  la crisi del settore minerario (20 anni fa quando si instaurò il modello neoliberale) e non essendoci altre risorse lavorative, questi si dedicarono alla coltivazione della coca e di altri prodotti agricoli.
Fino a prima degli ultimi scontri Cochabamba era considerata la capitale dell’ integrazione, ma repentinamente e con razzismo “il diavolo si è impossessato di noi” e le nostre debolezze hanno avuto la meglio.
Rispetto a Manfred ti dico che è rientrato a Cochabamba  oggi  5 di febbraio precisamente dall’ Europa, (Germania e Belgio), dopo  essere stato negli Stati Uniti denunciando e dispregiando con l’intento di destabilizzare, di essere stato vittima di un’insurrezione.
Proprio oggi torna a Cochabamba da questo suo viaggio denigratorio, ma tuttavia potrà continuare ad esercitare il suo ruolo di prefetto, il quale snatura le sue dichiarazioni di mostrarsi come martire davanti alla comunità internazionale.
 
Caro Rafael mi chiedo come è che questo diavolo improvvisamente si sia impossessato dei CochaBAMBINI come li chiami tu e non piuttosto sia stato ben fomentato e magari nutrito, a dollari forse?
Un abbraccio Annalisa.

Mail desde Cochabamba

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Recibo por el amigo Rafael Rolando Prudencio Briancon esas reflexiones sobre los ultimos acontecimientos en  Cochabamba el último  5 de febrero pasado:
Annalisa, contándote lo que sucede en Cochabmaba y los CochaBAMBINOS,te comento que existe un sentimimento de frustración después de que los citadinos apalearan a los campesinos cocaleros,motivados mas por un resentido racismo y frustraciones personales que por una causa justa.
Cochabamba es considerada el “corazón de Bolivia y del Continente“por estar geográficamente al centro del país y de sud América; además que Cochabamba recibió con los brazos abiertos a miles y cientos de migrantes que llegaron de otros departamentos,cuando se produjo la crisis de la minería (20 años atrás, cuando se implantó el modelo Neoliberal) y no habían fuentes de trabajo y esos migrantes se dedicaron al cultivo de coca y otros productos agrícolas.
Hasta antes de los enfrenatmientos Cochabamba era considerada la capital de la integración,pero repentina y racistamente se “nos salieron los demonios del cuerpo“y nos vencieron nuestras debilidades.
Respecto a Manfred;te cuento que el llega hoy día(5 de febrero)precisamente de Europa –Alemania y Bélgica-d espués de haber estado en EEUU,denunciando y desprestigiando desestabilizadoramente que fue víctima de un derrocamiento.
Pero hoy precisamente está llegando a Cochabamba de esa su desprestigiosa gira, pero el podrá seguir jerciendo su cargo de prefecto,lo cual desvirtua sus declaraciones de mostrarse como martir ante la comunidad internacional.
 
Querido Rafael, me pregunto como es que improvisamente a los CochaBAMBINOS como los llamas tú, improvisamente  “les salieron los demonios del cuerpo” y no mas bien esos demonios fueron alimentados y bien fomentados, quien sabe acaso con dolares?
Annalisa
 
 

Fredy Muñoz e la “prueba reina”

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RENOVANDO LA SOLIDARIEDAD A FREDY MUÑOZ

Era scontato che succedesse. La liberazione di Fredy Muñoz non poteva non nascondere qualche insidia, non poteva concludersi  così “banalmente” una vicenda che ha rappresentato un duro attacco alla libertà di espressione in un paese dove questa è già un’utopia. Una vicenda che si inserisce in un contesto di rapporti difficili tra due paesi che appaiono sempre più lontani. Come già preannunciato a suo tempo dai legali  e dallo stesso Muñoz,  egli, oltre a vedere aggravata la sua di per sé difficile posizione con la magistratura colombiana, è  realmente anche in pericolo di vita.

La rivista  colombiana  Cambio pubblica quella che a suo dire è la “prova principe”, quella che inchioderebbe definitivamente l’imputato alle sue responsabilità, o alle manipolazioni di cui è oggetto a seconda dei punti di vista. Addirittura si vocifera che

la Fiscalía abbia emesso già un mandato di cattura per Fredy Muñoz.

La fotografia, ritrarrebbe il corrispondente di TeleSUR in un accampamento delle FARC sorridente tra i guerriglieri con un bicchiere di vino in una mano e un M16 nell’altra.

Questa fotografia sarebbe stata “casualmente” ritrovata nell’accampamento di Martin Caballero, comandante del fronte 37 delle FARC, dall’esercito colombiano durante una perquisizione all’indomani della liberazione dell’ex ministro Arajuco.

Un investigatore consultato dalla rivista Cambio afferma che “non ci sono dubbi che Fredy Muñoz è colui il quale appare sulla foto in compagnia dei guerriglieri e questo conferma che il corrispondente di TeleSUR  in Colombia fa parte integrante di uno dei fronti più agguerriti delle FARC”.

Oltre alla fotografia  ci sono altre prove “schiaccianti” sull’attività eversiva di Fredy  che consistono in alcuni fogli in bianco ritrovati nella “sua” abitazione  recanti il timbro del fronte 35 delle FARC e 17  fogli di uno scritto dal titolo “La dottrina del Fascismo”.La fotografia appare manipolata grossolanamente, tanto è vero che in internet girano altre “prove schiaccianti” su altri personaggi come quella qui sotto:Alvaro Uribe

Si notano infatti nella foto che ritrarrebbe Fredy Muñoz, zone di diversa nitidezza. Sebbene Fredy si trovi sullo stesso piano del guerrigliero con la maglietta del Che, la sua immagine appare molto più sfocata e il corpo non sembra corrispondere al suo, sul quale sarebbe stata posta una sua fotografia.

I metodi sono quelli già ben noti della Fiscalía Colombiana, il mezzo è un settimanale che pare  si stia prestando sempre più agli interessi del potere militare e paramilitare.

Fredy Muñoz ha prontamente  replicato alle accuse con una lunga lettera pubblicata sul sito di TeleSUR e di cui riporto qui di seguito la traduzione: (Qui la versione originale)

“Come preannunciato, una nuova montatura è stata  il risultato della campagna di criminalizzazione contro la libera stampa, contro la libertà di espressione e contro la democratizzazione dell’informazione che avanza nel continente con l’ espansione di TeleSUR.

Il 31 gennaio scorso i nostri avvocati ottennero  che

la Fiscalía General dello Stato trasferisse il mio processo  per ribellione e terrorismo da Cartagena delle Indie a Bogotà.

Processo che è rimasto  appeso a un filo con l’infondatezza delle prove annesse e che consistevano in testimonianze contraddittorie di cosiddetti “testimoni burattini” e in “rapporti di indagini” inconsistenti e senza valore probatorio.

Il giorno dopo della notifica da parte dei miei avvocati del trasferimento del processo, il 1 febbraio scorso, una minaccia di morte mi è giunta attraverso la posta elettronica firmata da un gruppo paramilitare identificato come “Aguilas Negras”. In  questa nota ci definisce “rospi comunisti travestiti da giornalisti” e ci minaccia di aspettarci la morte.

Dopo questa intimidazione alcuni mezzi di comunicazione hanno iniziato a diffondere la notizia, la domenica  del 4 febbraio scorso,  che

la Fiscalía avrebbe emesso contro di me un nuovo ordine di cattura, notizia diffusa direttamente da organismi centrali di quell’istituzione.  A questo punto già si era organizzata tutta la montatura.

In modo brusco, intempestivo e in linea con i metodi di questo organismo, una mia presunta fotografia in compagnia di guerriglieri delle FARC  compare  “abbandonata” dai ribelli nello stesso luogo dove era tenuto sequestrato il ministro Fernando Araújo e di cui se ne ha notizia solo oggi un mese e mezzo più tardi. È stato abbinato  collegato in modo approssimativo, questo successo, il più sensibile e significativo  per l’opinione pubblica negli ultimi mesi, alla  persecuzione e alle  segnalazioni contro di me.

Questa fotografia è stata definita dalla rivista Cambio come la “prova principe” e affermano i servizi che è stata scattata all’inizio del 2006 mentre allora  era dimostrato il mio impegno continuo  con TeleSUR.

Un altro mezzo di informazione, assicura in un contesto di irresponsabile ambiguità, che detta foto fu scattata ad aprile 2005 , periodo in cui era risaputo pubblicamente che mi trovavo in fase di consegna del documentario “Il treno che arriva a Clamar” per la serie “Tropici” di Telecaribe.

Seriamente, ho visto e fatto migliori fotomontaggi di questo.

Che modo grossolano e irresponsabile di rivivere una criminalizzazione che è iniziata i primi giorni di maggio 2005 quando quegli stessi servizi di sicurezza colombiani, incentivati dagli Stati Uniti “confusero” il ritornello della canzone “Tieta” di Caetano Veloso e cantato  in un passaggio promozionale di TeleSUR da una giovane brasiliana, con un’apologia del gruppo basco ETA, riconosciuto internazionalmente come terrorista.

E seguì con le dichiarazioni del congressista nordamericano Connie Mack sul denaro e sforzo che dedicherebbero da Washington per contenere e bloccare TeleSUR, quando non era andato in onda ancora nemmeno un servizio giornalistico.

Questa piega che prende ora la persecuzione, avallata da un fotomontaggio e dalla pubblicazione irresponsabile da parte della rivista  Cambio di informazioni  scritte in mala fede, e indiscutibilmente falsa, è inoltre un grave attacco al segreto istruttorio, alla presunzione di innocenza e al nostro diritto alla difesa, aggredito con queste prove che “sono state prodotte” alle spalle dei nostri avvocati.

Insiste questa rivista nel dire, tra le altre falsità, come già dissi nel novembre passato, che nel “mio” appartamento è stata trovata carta intestata delle FARC, quando nella stessa inchiesta e nella sentenza del Tribunale della Corte di Appello che mi concesse la libertà, si dichiara che né l’appartamento perquisito era il mio alloggio, e né dal verbale di perquisizione risulta che fu mai ritrovata della carta intestata.

Ma questo è il risultato del compromesso di alcuni mezzi di comunicazione del paese con gli organi militari e di sicurezza, che in modo irresponsabile pubblicano ciò che gli capita fra le mani, senza nessun rigore né etica giornalistica e con evidente intenzione di causare danno.

Ci troviamo di fronte alla forma più specializzata di coercizione della libertà di stampa e di criminalizzazione della diversità informativa. Così come gli Stati Uniti accusano  giornalisti arabi, rifugiati in Francia, di far parte della rete “Al Qaeda” e di aver partecipato alla  terribile tragedia dell’11 settembre  solo per aver intervistato e informato sulle caratteristiche ed azioni di quel gruppo, qui in Colombia si pretende di  detenere l’annunciata espansione di TeleSUR con fotomontaggi come questo.

Ai nostri avvocati è stato negato l’accesso alla pratica, la quale è passata per la città di Cali, fatto inspiegabile secondo i molti giuristi consultati. Non è stato inoltre ancora notificato il pubblicizzato ordine di cattura. Credevamo che le fughe di notizie fossero l’eccezione e invece si scopre che è re la regola, indagando  un po’ nel passato dei funzionari giuridici coinvolti in questa montatura.

Il DAS  di  Barranquilla manovrato dal paramilitare Rodrigo Tovar Pupo, alias Jorge 40 è l’ente  che esegue l’arresto. Precedentemente  aveva arrestato Alfredo Correa de Andreis, amico e maestro, e  una dozzina tra attivisti sociali, studenti, sindacati, dirigenti culturali e maestri.

È  provata la partecipazione di paramilitari e agenti di questo corpo nel ripudiato crimine di Alfredo Correa ed  di dettagli  a sangue freddo trapelati dal  personal computer di Jorge 40 , trovato nella proprietà dell’ alias “Don Antonio”  un militare in ritiro al servizio del paramilitarismo.

Il pubblico ministero Manuel Hernando Molano Rojas, non specializzato, e con delega alla cosiddetta  Unidad de Reacción Inmediata del DAS nel Atlántico, accogliendo  la mia richiesta di  istruttoria,  alla conclusione di essa chiese scusa al mio avvocato per le “irregolarità commesse” e mi disse testualmente  “A te quelli che ti vogliono fottere (sic) sono quelli della Marina”.

Il processo giunge allora nelle mani del giudice di terzo grado di Cartagena, Miriam Martínez Palomino, (responsabile di arresti di massa denunciati dal Tribunale del Popolo del Bolívar, conclusi  con l’assoluzione dei prigionieri) la quale è seriamente implicata  con gruppi paramilitari, come  fu denunciato anche da avvocati di parte di Cartagena in una nota dell’anno 2004.

Questi avvocati, stanchi della corruzione e del servilismo  della Fiscalía al paramilitarismo, denunciarono in un comunicato che Miriam Martínez  Palomino, con Demóstenes Camargo de Ávila, (oggi a capo  dei pubblici ministeri di Cartagena, e colui il quale all’epoca accusò  Alfredo Correa de Andreis e a dirigenti come Amaury Padilla Cabarcas), e con i   pubblici ministeri Pedro Díaz Pacheco e Jesús García Castillo, guidati dal direttore di sezione della fiscalía di Cartagena, erano  compromessi con  il paramilitarismo.

Alla metà dell’anno 2004 questo gruppo di funzionari giuridici si riunirono, dice il comunicato, in una proprietà in San Jacinto, Bolívar, dell’ex senatore conservatore Rodrigo Barraza, proprietà nella  quale giunse una pattuglia della polizia che ebbe uno scontro a fuoco con loro e li scoprì in compagnia dei  capi paramilitari, Antonio Orozco Ochoa, alias “el comandante” e Álvaro Rodríguez Pérez, alias “don Rodri” , più otto paramilitari che servivano da scorta.

In possesso  di questa congiura  di  fiscalía-paramilitarismo, si trovarono copie di tutte le pratiche di persone  che furono arrestate nella regione, accusati di ribellione e terrorismo.

Ciò nonostante questo accaduto  fu cancellato da un ordine della Fiscalía General alla cui direzione in quel momento c’era Luis Camilo Osorio, al quale si attribuiscono ora, dopo le prime libere deposizioni dei capi paramilitari, le più oscure alleanze con queste organizzazioni di ultradestra.

Dalle mani di questi pubblici ministeri uscì il processo che oggi, dopo un inesplicabile passaggio dalla città di Cali, pensa di risorgere sotto il peso di fotomontaggi come quelli mostrati da alcuni mezzi di comunicazione del paese.

Faccio un appello alle associazioni nazionali ed internazionali dei Diritti Umani, alle Organizzazioni Non Governative, alle associazioni che difendono la libertà di stampa, al giornalismo indipendente, alle corporazioni della stampa, alle associazioni degli utenti della stampa, e a tutta la collettività critica e attiva del nostro continente ad essere vigile rispetto all’evolversi di questa situazione.

Nego pubblicamente, quanto  affermano in forma tendenziosa gli organismi di sicurezza e i suoi mezzi di corte, che sono uscito dal paese. Dallo scorso 1 febbraio a causa delle gravi e continue minacce contro la mia vita mi proteggo da esse e faccio in modo di proteggere anche la mia famiglia, all’interno del mio paese. Nonostante queste circostanze, i miei avvocati non hanno abbandonato il processo.

Voglio richiamare l’attenzione del Tribunale Nazionale del Popolo affinché garantisca il nostro diritto alla vita , al processo giusto, alla libera espressione e al buon nome, il mio, della mia famiglia e quello dei miei colleghi di TeleSUR  in  Colombia e che intervenga tra tante e tali sleali minacce.”

Fredy Muñoz 14 Febbraio 2007

Traduzione di Annalisa Melandri

Sul sito di TeleSUR ulteriori notizie.

Post precedenti:


Manfred Reyes Villa faccia di bronzo

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Cochabamba, protesta del 16/1/07

“Si ladran los perros es señal de que avanzamos”
Come è accaduto già per il Messico, quando con l’amica Monique di Oaxaca abbiamo tenuto una sorta di “diario messicano”, in cui raccontarvi quanto accadeva in quel paese nei “giorni caldi” di Oaxaca, cosi’ per la Bolivia e Cochabamba con l’amico Rafael Rolando Briancon cercheremo di tenere teso un filo di solidarietà verso quel paese e verso il popolo boliviano.
Nei giorni scorsi a Cochabamba ci sono stati violenti scontri tra i rappresentanti dei movimenti sociali e coloro che a gran voce chiedevano le dimissioni del prefetto Manfred Reyes Villa e i fascisti di Juventud Democratica da lui stesso fomentati e sobillati.
L’11 gennaio scorso, negli ultimi scontri si sono avuti due morti e centinaia di feriti.
Molto accomuna Oaxaca e Cochabamba, in ambedue i casi la popolazione ha reclamato a gran voce le dimissioni di un rappresentante del governo, in ambedue i casi tale figura è stata appoggiata e sostenuta dalla destra piè reazionaria e dal suo braccio armato, cioò i paramilitari.
In ambedue i casi per esempio si è colpito il mezzo con cui gli indigeni, i contadini, gli studenti avevano trovato un mezzo di espressione per reclamare i loro diritti, cioè la radio, Radio Universidad a Oaxaca e Radio Alter-Nativa Lachiwana a Cochabamba.
Riporto qui di seguito uno scritto dell’amico Rafael Rolando, purtroppo non ho ora la possibilità di tradurlo per intero, però ne riassumo brevemente il contenuto: Manfred Villa dopo esser riuscito nel suo intento di dividere il paese, si è recato a Washington niente di meno che davanti all’ Osservatorio per i Diritti Umani (Human Right Watch)e in una riunione avuta con il segretario generale dell’ Organizzazione degli Stati Americani OEA ha denunciato il fatto che secondo lui la Bolivia sta virando verso il totalitarismo e che la “Democrazia, i diritti costituzionali, e i Diritti Umani sono stati violati in Bolivia sotto il governo del MAS”.
Manfred Villa inoltre denuncia a Washinghton che“esiste una persecuzione politica … che istiga la violenza e la persecuzione razziale…”
Queste le sue dichiarazioni dal tono delirante come quella “il governo incentiva la resurrezione dei gruppi armati come quello de los ponchos rojos e i legami dell’ETA basco con i deputati del MAS”.
Si chiede inoltre Rafael come possa  Manfred Villa farsi ora difensore della democrazia se fu in passato il suo maggior detrattore appoggiando la dittatura di Garcia Meza.
Manfred y su majadera mortificación
Rafael Rolando Prudencio Briancon
 
No sólo que le faltó valor civil para dar la cara y ni que decir el de militar –valor– que como a ex capitán del ejercito y graduado nada mas y nada menos que en las Escuelas de las Américas le correspondía mostrar para ponerle el pecho a la pendencia que provocó premeditadamente al convocar a un nuevo Referéndum por las Autonomías en Cochabamba; Sino que ahora se le ha dado por mudarse martirizadamente en un pechoño periplo para quejarse del quilombo que desató desatinada, desintegradora y desestabilizadoramente con la manipuladora movidita de la Media Luna de convocar nuevamente a un Referéndum por las Autonomías.
 
Así que Manfred se movilizó en una majadera misión con la muletilla mostrarse mártir del plebeyo y patriótico paroxismo de los cochabambinos que le jodieron esa su jugarreta de dividir el país y con la cual ahora justifica que el jaleo que estalló enardecidamente en la Llajta fue por culpa del gobierno nacional.
 
Entonces en vez de dar la cara en Cocha, fue a poner su cara de cartucho santurrón en Washington, nada menos que ante la el Observatorio de Derechos Humanos (OOHuman Right Watch), el Centro por la Justicia y el Derecho Internacional y la Oficina del Diálogo Interamericano, con la concluyente y conspiradora confesión de que “La Democracia, las garantías Constitucionales y los Derechos Humanos han sido violados en Bolivia, impulsado por el propio gobierno del MAS”.
 
Asimismo asustadamente asevera el muy manchachi de Manfred de que: “Existe persecución política y el peligro latente de un régimen de totalitario, que se declara rebasado por sus sectores y se niega a dar garantías a los ciudadanos, mientras instiga a la violencia y fundamentalismo racial indigenista, impulsando el derrocamiento de las autoridades democráticamente elegidas en las pasadas elecciones”.
 
Es así como secuencial y solapadamente, se fue uno a uno ante los mencionados organismos internacionales a denunciar desventuradamente de que: “fue el gobierno nacional el que desactivó a las fuerzas del orden exponiendo a las instituciones democráticas y la población a la furia de grupos de choque, que en ausencia de autoridad, cortaron el suministro de agua a la ciudad, bloquearon las vías de acceso, agredieron a periodista e incendiaron el palacio prefectural, provocando el repudio y reacción de la ciudadanía que salió a defenderse por mano propia”. Siendo que la organización de grupos de choque estuvo a cargo de los croatas Pavisic y compañía, como por el Director del Parque Tunari –entre otros– quien azuzó arteramente a que se tale la arboleda del parque para dotar de garrotes a los Jóvenes por al Democracia.
 
Intrigando inconfesablemente aún mas, señaló que “El gobierno incentiva el resurgimiento de grupos armados como los ponchos rojos y las vinculaciones del ETA vasco con diputados masistas”.
 
Y no se quedó ahí el calumnioso capitán, quien insidiosamente insinuó de que: “Existe una violación del Estado de Derecho, Violación a las Garantías Constitucionales, Violación a la Libertad de Expresión y Violación a los Derechos Humanos –manoseando la muerte del sobrino del Secretario General –otro de los inefables instigadores– además del amedrentamiento a los familiares de la víctima y los testigos de la muerte del joven Cristian Urresti Ferrel.
 
O sea que después de desear desintegrar el país con los eNFRentamientos promovidos provocadoramente al convocar a un nuevo referéndum y que fue realmente la resistente razón de la revuelta en el valle porque el prefecto proscribió precisamente la voluntad del pueblo expresado en el primer referéndum; ahora se le dio por magnificarse como mártir de las malhadadas masas.
 
No se de dónde saca este capitán al cuadrado –del Ejército y primera Autoridad del Departamento– de que el gobierno central es el que “desactivó las fuerzas del Orden” si fue el como primera autoridad del departamento, quien ordenó la sistemática represión policial de las movilizaciones que mantenían los cumpas cocaleros en vigilia hasta que el prefecto deje sin efecto al convocatoria a referéndum.
 
Presupongo que preverán prolijamente estos precavidos organismos internacionales el prontuario antidemocrático del capitán, así como su cuestionado currículo que quiere meterles gato por liebre al hacerse ahora al defensor de la Democracia, cuando fue su detractor durante la dictadura Garciamesista.  
 
 
 
 


Venezuela y ley habilitante

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In Italia la diffamazione a mezzo stampa é punita dall’articolo 595 del Codice Penale che recita: “Se l’offesa é recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicitá, ovvero in atto pubblico, la pena é della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a lire un milione” (da aggiornare ad euro — ndr).

Ció premesso, continuamente su stampa e televisione venezuelana leggiamo ed ascoltiamo notizie false, tendenziose e diffamatorie. Questi media, ripresi dai suoi alleati all’estero, vogliono far apparire Chavez come un dittatore. La scusa, adesso, é la cosidetta Legge Abilitante per la quale il Presidente del Venezuela, in questo caso Hugo Chávez, avrá podestá legilativa in alcune materie.

C”e da dire che queste leggi comunque dovranno essere ratificate dal Parlmento. Inoltre, non c’é assolutamente niente di dittatoriale; noi, in Italia abbiamo la stessa figura: i decreti legge. I decreti legge sono presenti, con nomi differenti (chi ha studiato diritto costituzionale comparato conosce la materia) in tutte le costituzioni democratiche del mondo. I decreti legge altro non sono che la possibilitá per il governo di legiferare, in eccezione alla Legge che prevede la podestá legislativa riservata al Parlamento. In Venezuela prendono il nome di Ley habilitante. Siamo di fronte alla stessa figura giuridica.

E’ vero che in italia a volte si criticano i governi per l’uso eccessivo di questa figura, peró nessuno si permetterebbe di paragonare il presidente del Consiglio di turno che utilizza i decreti legge, a Hitler, come succede in Venezuela. La copertina che mostriamo é del giornale “Tal Cual”. Una copertina del genere, in Italia avrebbe provocato dibattiti a non finire. Diffamare il presidente del Consiglio in tale modo avrebbe comportato non solo le pene di cui all’articolo corripondente del Codice Penale, ma conseguenze ben piú pesanti per il giornale colpevole di una simile diffamazione.

Secondo questi media, Il Venezuela sarebbe il paese della dittatura, il paese della repressione della libertá di stampa. La veritá, sotto gli occhi di tutti, é che in questo paese manca l’apparato giudiziario. I media possono dire tutto e di piú, con la piú assoluta impunitá fino al punto di permettersi di confessare in diretta di essere attori protagonisti di un colpo di stato e continuare a trasmettere anno dopo anno. Immaginate in italia, una televisione implicata in un fallito colpo di stato? Cosa gli succederebbe? Pensate che starebbe ancora in linea? Si accusa il governo Chavez di voler chiudere le televisioni! Negli otto anni di Governo Chávez (meno 47 ore di dittatura; é bene non dimenticarlo) le uniche televisioni silenziate sono state VTV, la televisione dello Strato ed una piccola televisione privata di nome Catia TV; entrambe silenziate dal breve governo del dittatore Carmona e suoi complici (nella fattispecie il sindaco di Caracas, Alfredo Peña).

La copertina in questione ha provocato la reazione, non solo nostra, ma anche di giornalisti seri ed obiettivi come Piero Armenti, giornalista de La Voce d’Italia, giornale notoriamnte vicino alle posizioni dell’opposizione, che nel suo Notizie da Caracas, titola TEODORO PETKOFF E’ IMPAZZITO”

 

Argentina cinque anni dopo

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Eric Toussaint e Damien Millet
En Español

Argentina, molto si è parlato di te da quella sera tra il 19 e il 20 dicembre del 2001, quando dopo tre anni di recessione economica, il tuo popolo si è ribellato alla politica neoliberista applicata dal governo di Fernando de la Rúa e il suo funesto ministro dell’Economia, Domingo Cavallo. Hai dimostrato che l’azione dei cittadini e cittadine può cambiare il corso della storia. Argentina, la situazione che ha portato alla rivolta alla fine del 2001 è cominciata con la decisione del Fondo Monetario Internazionale di non concedere un finanziamento previsto sebbene i tuoi dirigenti avessero sempre applicato le impopolari misure che il FMI esigeva. De la Rúa reagì bloccando i conti bancari dei risparmiatori e così scese in piazza la tua classe media, alla quale si unirono “i senza” ( i senza lavoro, gli abitanti delle baraccopoli, la maggior parte dei tuoi poveri). Il 27 dicembre del 2006 la tua Corte Suprema finalmente ha ordinato alle banche di indennizzare totalmente i suoi risparmiatori truffati.

Argentina, esattamente 5 anni fa, si successero in pochi giorni tre presidenti della repubblica: de la Rúa fuggì il 21 dicembre del 2001 e il suo successore, Adolfo Rodríguez Saá fu sostituito da Eduardo Duhalde il 2 gennaio del 2002. Decretasti la più storica sospensione del pagamento del debito estero. Era di circa 100.000 milioni di dollari e ciò danneggiò tanto i creditori privati come i paesi ricchi raggruppati nel Club de Paris*. Centinaia di fabbriche abbandonate dai suoi proprietari furono occupate e fatte funzionare sotto il controllo dei lavoratori. I tuoi “senza lavoro” rafforzarono la loro capacità di azione nell’ambito del movimento dei “piqueteros”, la tua moneta fu fortemente svalutata, i tuoi cittadini crearono monete locali. Tutti gridarono ai tuoi politici una richiesta unanime: “que se vayan todos!” “che se ne vadano via tutti!”.

Argentina, dopo un quarto di secolo di accordi continui tra il FMI e i tuoi governanti (dalla dittatura militare tra il 1976 e il 1983 fino al governo di de la Rúa, passando per il corrotto regime di Carlos Menem), hai dimostrato che un paese può sospendere il rimborso del suo debito per un tempo prolungato, senza che i creditori siano capaci di attuare ritorsioni efficaci. Il FMI, la Banca Mondiale, i governi dei paesi più industrializzati, i grandi mezzi di comunicazione, tutti avevano pronosticato il regno del caos. Ma che accadde? Ben lungi dall’affondare, cominciasti a risollevarti.

Argentina, il tuo presidente eletto nel maggio 2003, Néstor Kirchner, sfidò i creditori privati proponendogli in cambio dei loro titoli altri di nuova emissione di minor valore. Dopo lunghe negoziazioni concluse nel febbraio 2005 , il 76 % di questi creditori accettarono la rinuncia a più del 60 % del valore dei titoli che possedevano. Il mondo aveva gli occhi su di te e dimostrasti che un popolo può dire no.

Argentina, il resto della storia è deludente. Questo accordo finalmente segnò la ripresa dei rimborsi ai creditori privati. Per di più , esattamente un anno fa, il tuo governo rimborsò in forma anticipata la totalità del tuo debito con il FMI: 9800 milioni di dollari. D’accordo, risparmiasti 900 milioni di dollari di interessi, ma coloro i quali presero questa decisione sembrava soffrissero di una grave amnesia. La dittatura del generale Videla, appoggiata dal FMI e dalle grandi potenze, aveva utilizzato il debito con il fine di rafforzare il suo potere, arricchire i suoi dirigenti e affiancare il paese al modello dominante. Per rimborsare, i regimi seguenti liquidarono gran parte del patrimonio nazionale e contrassero nuovi debiti, i quali sono anch’essi odiosi.. E il colmo, la concessione di questi nuovi prestiti fu condizionata all’applicazione di misure di liberalizzazione massicce, di privatizzazioni sistematiche e alla riduzione della spesa sociale.

Argentina, i tuoi dirigenti potrebbero aver agito in modo migliore e questo esempio potrebbe aver fatto scuola in tutti i continenti. Avrebbero potuto rescindere dagli accordi con il FMI e con la Banca Mondiale. Avrebbero potuto avvalersi della sentenza Olmos , emessa da una Corte Federale e apportare validi argomenti giuridici per decretare che il debito è odioso e non deve essere rimborsato.

Argentina, siamo rimasti sconcertati quando abbiamo saputo che le tue autorità attualmente stanno negoziando con il Club de Paris, questa specie di scandalo istituzionale, che riunisce tutti i mesi a porte chiuse i rappresentanti dei 19 paesi più ricchi nella sede del ministero francese dell’Economia. Saprai, senza dubbio che l’obiettivo di questo Club così discreto è obbligare i paesi in via di sviluppo molto indebitati a rimborsare la maggior parte possibile dei loro debiti, senza tenere conto delle conseguenze sociali. Gli devi 6.300 milioni di dollari , ma un volta di più questi prestiti non hanno beneficiato il tuo popolo. Al contrario, i paesi del Club de Paris, il FMI, la Banca Mondiale, le grandi multinazionali, utilizzarono il debito durante decenni per opprimerti, per far sì che i tuoi governanti gli consegnassero i tuoi servizi pubblici privatizzati, deregolamentassero la tua economia e dimostrassero maggiore docilità, mentre nello stesso momento riducevi le spese sociali. Il film “La dignità degli ultimi” di Fernando Solanas mostra molto bene le situazioni di estrema povertà che causò tutto ciò.

Argentina, il tuo presidente deve scegliere se servire il tuo popolo o se servire i tuoi creditori. Disgraziatamente, sta alle regole, addirittura ha partecipato lo scorso settembre alla Borsa di New York per il tocco di campana inaugurale. Con il risultato che le cifre che pagherai nei prossimi anni faranno sì che sia impossibile l’applicazione di una politica alternativa al modello neoliberale. Le tue richieste sociali, anche se giuste, non potranno essere soddisfatte se non ripudi questo debito. Argentina, cinque anni fa i tuoi manifestanti avevano indicato un’altra direzione che poteva modificare la situazione a favore dei popoli in forma durevole. Ancora oggi è quella che ci auspichiamo.

* http://www.clubdeparis.fr

Eric Toussaint e Damien Millet (presidente del CADTM Francia, Comitato per l’Abolizione del Debito del Terzo Mondo, www.cadtm.org), coautore del fumetto “Dette Odieuse”, CADTM/Syllepse, 2006. Éric Toussaint è presidente del CADTM Belgio, autore di “Banca Mondiale: colpo di stato permanente”, Ediciones de Intervención Cultural, Mataró, 2007 — in stampa)

Eric Toussaint e Damien Millet
Fonte:
http://www.rebelion.org
LInk: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=44023
31.12.2006

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ANNALISA MELANDRI


Liberato Fredy Muñoz!

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FREDY MUÑOZ LIBERO!

Dopo 52 giorni di prigionia è stato rilasciato ieri, 9 gennaio, il corrispondente dalla Colombia di Telesur, Fredy Muñoz. Si trovava nel carcere di Barranquilla. La Fiscalía colombiana ha dichiarato insufficienti le prove a suo carico che consistevano esclusivamente in dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia attualmente in stato di detenzione.
Uno di questi testimoni, Yainer Rodriguez Vásquez ha affermato inoltre di aver ricevuto minacce e intimidazioni dai servizi segreti colombiani affinché depositasse testimonianza contro persone a lui sconosciute tra le quali Fredy Muñoz.
Quanto accaduto a Fredy ricorda il caso del sociologo colombiano e professore universitario Alfredo Correa de Andreis, che fu accusato e messo in carcere con le stesse modalità e le identiche accuse rivolte a Fredy Muñoz e che dopo essere stato rilasciato fu assassinato circa due anni fa a Barranquilla, regno dei paramilitari fedeli a Jorge 40.
Per questo sia Fredy che i suoi cari temono per la sua incolumità dal momento che il processo va avanti e non sono state formalmente ritirate le accuse a suo carico.
C’è da aggiungere che tutto ciò accade in un momento di particolare tensione politica e sociale in Colombia in cui sempre più evidenti appaiono i legami tra politica e narco-paramilitarismo e sempre più violente si fanno le pressioni contro i giornalisti e i mezzi di comunicazione che li denunciano. Particolarmente evidente è stato il tentativo di criminalizzare Telesur cercando di limitare così la sua influenza in Colombia attentando direttamente al cuore del nuovo processo di integrazione latinoamericana che l’emittente rappresenta.

Fonte:TELESUR

Articoli precedenti sul caso Fredy Muñoz:

Attacco Colombiano a Telesur 21/11/06

Breve aggiornamento sul caso 25/11/06

Lettera a

La Repubblica  23/11/2006

 

 

 

 


Il governo del Perù accusato di crimini di guerra e l’estradizione di Fujimori è sempre più vicina.

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Tempi duri per il governo del Perù e particolarmente per l’ex presidente e dittatore Alberto Fujimori attualmente detenuto in Cile e del quale il Perù attende da mesi l’estradizione. Con due sentenze del Tribunale Interamericano per i Diritti Umani, con sede in Costa Rica  emesse a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, sembra avvicinarsi sempre di più il momento per poter rendere finalmente giustizia alle  vittime della dittatura di Fujimori. Quella più importante,  del 21 dicembre scorso e che ha  già causato grande clamore, nonché la disapprovazione dell’attuale presidente del Perù Alan García,  condanna lo stato peruviano per crimini di guerra.

Questa  sentenza può già considerarsi  storica perché è la prima volta che viene applicata la convenzione di Belem do Parà redatta nel 1994 per prevenire, condannare e combattere  la violenza sulle donne e per la prima volta dallo stesso tribunale la violenza sessuale contro una donna viene intesa secondo i canoni del  diritto internazionale. La sentenza riguarda i fatti accaduti  nel penitenziario  di Miguel Castro Castro di Lima tra  il 6 e il 9 maggio 1992, allora  presidente Fujimori,  dove con  un’operazione militare in piena regola  furono giustiziati 42 detenuti, 175 furono feriti e 322 furono torturati, giustificando agli occhi del paese tanta violenza con il tentativo fallito, a causa di un’insurrezione tra i detenuti,  di trasferire le donne accusate di terrorismo in un altro carcere.

In effetti i penitenziari peruviani, in quegli anni affollati di dirigenti, attivisti e semplici simpatizzanti  dei gruppi eversivi Sendero Luminoso e Túpac Amaru erano in una situazione di sovraffollamento e mal gestiti dall’autorità giudiziaria, per cui nel 1991 si autorizzò l’ingresso delle forze armate nelle prigioni. I problemi maggiori si avevano all’interno del penitenziario di Miguel Castro Castro, dal quale i ribelli riuscivano comunque a portare avanti la loro  attività eversiva.  

Il legale dei 300 detenuti vittime di torture, Mónica Feria, lei stessa ex detenuta e  sopravvissuta al massacro,  è riuscita a dimostrare al Tribunale Interamericano per i Diritti Umani, dopo 10 anni di discussione del caso, che in realtà il trasferimento dei detenuti fu solo un pretesto per effettuare decine di esecuzioni sommarie dei capi dei gruppi ribelli che si trovavano a quel tempo in carcere. Fu usato allo scopo un vero e proprio arsenale di guerra, incluse armi chimiche tra cui il fosforo bianco. Molte delle donne detenute erano in avanzato stato di gravidanza e fu rifiutato espressamente dal governo peruviano nella persona dell’ex presidente Alberto Fujimori, l’intervento sia della Croce Rossa Internazionale che di vari organismi internazionali per la difesa dei diritti umani.

Il Tribunale Interamericano  ha riconosciuto colpevole lo stato peruviano per la violazione dei diritti umani e in particolar modo per quelli delle donne  (per cui è stata applicata la convenzione di Belem do Pará), “le quali sono state colpite dagli atti di violenza in modo differente rispetto agli uomini e  alcuni atti violenti sono stati diretti  loro in quanto donne”. Sono stati riconosciuti  dal giudice Cancado Trindade casi di violenza pre-natale in quanto alcune vittime erano  in stato di gravidanza che sicuramente hanno causato traumi prenatali nei  nascituri, la cui entità è difficilmente valutabile.

Alle violenze subite da queste donne è stato riconosciuto inoltre il carattere di continuità in quanto sono proseguite anche in seguito alla conclusione dell’operazione militare. Alcune di essere sono state ripetutamente violentate e nei mesi successivi sono state tenute in regime di stretto  isolamento nonostante avessero bisogno di cure.

La seconda sentenza, del 29 novembre 2006, condanna invece lo stato peruviano, per il caso di 

La Cantuta ”  riconoscendolo colpevole del massacro del professore Hugo Muñoz Sánchez e di nove suoi studenti dell’Università Nazionale “Enrique Guzmán Valle”  (

La Cantuta ) avvenuto il 18 luglio 1992  sempre durante la presidenza di Alberto Fujimori. Il professore e gli studenti furono prelevati da militari appartenenti al gruppo paramilitare Colina, facente capo a Vladimiro  Montesinos e dopo essere stati giustiziati furono sepolti in una fossa comune e i loro corpi ritrovati solo mesi più tardi. Il caso di  

La Cantuta è uno dei crimini per i quali è stata  richiesta l’estradizione di Alberto Fujimori nel 2003 dal Giappone e successivamente  nel  gennaio 2006 al governo del Cile, il quale ora, come paese membro del Tribunale Interamericano per i Diritti Umani non potrà  non prendere atto di queste due sentenze e negare ancora l’estradizione di Fujimori. Il verdetto del tribunale cileno sull’estradizione  è atteso per marzo 2007.

E per un ex presidente e dittatore,  che vede sempre più vicina la possibilità di finire in prigione nel paese dove ha commesso i suoi crimini più efferati , ce n’è un altro, quello in carica, evidentemente in calo di popolarità, che responsabile anch’egli di numerosi crimini durante il suo  precedente mandato (1985–1990),  teme un giorno di poter fare la stessa fine del suo collega e infatti condanna a gran voce la sentenza del Tribunale Interamericano dei Diritti Umani relativa al caso del penitenziario Miguel Castro Castro,  affermando che non è disposto in nessun modo ad adempiere all’obbligo prescritto in essa di rivendicare pubblicamente la responsabilità dello stato nel massacro, ritenendo inappropriata una sentenza che dia risarcimenti e indennizzi a criminali terroristi.

García forse non sa che i diritti umani si applicano ANCHE ai detenuti. E  che torturare un essere umano è SEMPRE un crimine.


Voci del coraggio a Oaxaca — Violazioni dei diritti umani delle donne nel conflitto sociale e politico

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PRIMA PARTE

Dedico questa parte del diario messicano a mi amiga Monique Camus, valiente y sensible mujer oaxaqueña.

 

Ricevo tramite mail da parte di Sara Méndez, de

la Red Oaxaqueña de Derechos Humanos la prima edizione dell’opuscolo “Voci del coraggio a Oaxaca. Violazioni dei diritti umani delle donne nel conflitto sociale e politico” prima edizione del 10 dicembre 2006.

Lo tradurrò per il diario messicano in più riprese in quanto si compone di varie sezioni. La versione originale si può scaricare in formato pdf da qui. Credo che sia interessante perché al di là di quanto già è stato detto sulla situazione politica attuale in Messico  che chiunque sia dotato di buona volontà a questo punto dovrebbe già conoscere, al di là anche degli episodi di violenza più eclatanti che si sono verificati in questi ultimi mesi a Oaxaca, ci sono poi aspetti  e modalità diverse della repressione di cui se notizie generiche vengono fornite dalla stampa straniera nessun riferimento appare su quella italiana o europea. Possiamo solo immaginare che sulle donne  la repressione sia stata particolarmente cruda e violenta, possiamo immaginare con  quali modalità essa sia stata attuata, ma l’immaginare soltanto non rende giustizia a queste donne che con coraggio e determinazione stanno portando avanti una battaglia che è iniziata ancor prima del verificarsi degli incidenti di Oaxaca. E proprio per questo,  per la loro determinazione e per il loro coraggio sono state duramente colpite. Un donna che protesta e lo fa a volto scoperto fa più paura di un uomo  perché nei suoi occhi si  legge un dolore antico. 

INTRODUZIONE

“Se non abbiamo un luogo dove si possa vivere con dignità e giustizia, non possiamo vivere da nessun parte” cita enfaticamente Leyla Centeno mentre racconta la storia della sua partecipazione al movimento e di come si sono organizzate le donne per conquistarsi un proprio spazio e un riconoscimento all’interno del movimento sociale sorto a Oaxaca  a partire dal conflitto che da sei mesi monopolizza la società.

Il movimento sociale di Oaxaca ha la consapevolezza  che, come spiega  Leyla, la dignità è qualcosa  di intrinseco all’essere umano, e  che  devono esistere  diritti  che devono essere garantiti dallo Stato affinchè siano reali. Di fatto queste  garanzie sono state violate e perfino cancellate da un governo autoritario e sordo alle necessità dei suoi cittadini e cittadine e per questo uomini e donne lottano per far sì che le persone possano vivere degnamente: rispetto, libertà, sicurezza personale, integrità, autonomia, giustizia e uguaglianza.

Oaxaca è uno stato multiculturale, con caratteristiche geografiche, ambientali e di sviluppo molto diverse.

È il terzo stato più povero del Messico  e concentra la maggior parte della popolazione indigena  del paese, con 16 etnie che rappresentano il 31% delle 52 che esistono in Messico.

Oaxaca si è caratterizzata per avere un sistema di governo monopartitico da più di mezzo secolo.  Il Partito  Rivoluzionario Istituzionale (PRI) nell’agosto 2004 vinse le elezioni per il rinnovo del locale Congresso  e per  la nomina del Governatore in un clima di scandali e accuse di corruzione e di discussione sociale e giuridica tra  i diversi soggetti politici e  i cittadini e le cittadine.

La disuguaglianza sociale, politica ed  economica accumulata nel corso della storia, insieme con la crisi della  transizione democratica, hanno  oggi come una delle ultime conseguenze  un contesto di corruzione, impunità e violazione dei diritti umani e colpiscono sempre di più le popolazioni indigene e particolarmente le donne.

Voci del coraggio a Oaxaca. Violazioni dei diritti umani delle donne nel conflitto sociale e politico, rappresenta  uno sforzo collettivo delle  donne dei coordinamenti  della società civile di Oaxaca ed è appoggiato da un gran numero di donne e organizzazioni, scritto con il fine di essere uno strumento di denuncia delle violazioni dei diritti umani delle donne.

Inizia con una breve descrizione del ruolo che queste hanno giocato nel movimento sociale.

Racconta  storie che non sono ancora Storia, non solo perché non sono ancora state scritte ma perchè non sono storie definite, periodi terminati, ma sono storie ancora aperte, in svolgimento o che reclamano ancora giustizia . Storie che sono piene di donne con i loro mormorii, le loro grida e il loro dolore. Voci di donne che rompono il silenzio e che ci danno una lezione di resistenza, di lotta, di organizzazione, di partecipazione sociale e di coraggio. Insieme denunciano e chiariscono gli aspetti differenti del tipo  di violenza esercitata contro di esse  e che condizionano la loro vita.

La prima parte di questo materiale racconta le storie di quattro donne, i cui avvenimenti  accadono in un momento storico anteriore al conflitto  degli ultimi mesi e riflettono la situazione cronica dell’abuso di  potere da parte del PRI al governo, violazioni commesse contro donne in quanto tali o per la loro etnia, per pratiche dispotiche  o per il malfunzionamento delle istituzioni. Nella seconda parte si trovano dieci  delle   migliaia di voci di donne di Oaxaca che  hanno infranto il silenzio. Ci mostrano come si sono organizzate in questi ultimi sei mesi di conflitto per conquistarsi un proprio spazio ed essere attrici principali del movimento sociale. Le loro voci ci raccontano come direttamente o indirettamente sono state  colpite nei loro diritti fondamentali e quanto coraggio hanno avuto  per affrontare situazioni di pericolo e di difficoltà. Le voci unite creano un clamore. La voce di ognuna di queste donne  desidera  essere ascoltata  da tante altre; affinchè sia  clamore, con le loro voci e le vostre:  fermiamo questa Tragedia, questa Impunità, questa Infamia.

Voci del  coraggio a Oaxaca vuole  essere un clamore per

la Giustizia contro il silenzio e  per

la Libertà.

Abbiamo la convinzione che sommando gli sforzi possiamo poco a  poco far sì che Oaxaca sia un luogo dove tutte le persone in particoalre le donne possano vivere con dignità e giustizia e come dice lo slogan femminista: che possano camminare senza paura per le strade.

CONTESTO

Sei mesi di resistenza pacifica  a Oaxaca. Un movimento sociale emergente nel quale la partecipazione delle donne è stata fondamentale. Protagoniste e partecipi di centinaia di azioni pubbliche, di resistenza e di discussione, difenditrici dei diritti dei familiari vittime delle violazioni ai loro diritti individuali e voci levate contro la impunità. Senza l’apporto delle donne, questo movimento senza dubbio sarebbe la metà  in numero e in importanza  di ciò che è stato.

Loro, le colone, le indigene, le contadine, le maestre, le femministe, le casalinghe, le studentesse, tutte hanno contribuito a tessere la storia odierna  di questa organizzazione  e forse del Messico intero. Dall’audace e insospettata presa della televisione statale e di diverse stazioni radio che sono state le principali vie di comunicazione e di articolazione del movimento, fino al sostegno dei presidi e delle barricate che sono servite come protezione agli  operativi notturni dai  gruppi di banditi  del governatore che in distinte occasioni hanno attaccato la popolazione. Dall’organizzazione dei fori di discussione fino al  dar voce alle atrocità.

È noto che questo capitolo  della storia inizia il 14 giugno del 2006, giorno dello sgombero violento del presidio dei maestri nello zócalo di Oaxaca, le offese  per lungo tempo accumulate nella storia del popolo di Oaxaca hanno causato la crisi. Il discoso della governabilità e della democrazia a Oaxaca , come una cortina di fumo, si è dissolto per mostrare strade piene di centinaia di migliaia di pugni indignati, di voci che in coro ci hanno sorpreso con la loro tenacia: “È caduto, Ulises è  già caduto!” Sintesi ultima delle richieste sociali, del debito storico con uno dei popoli  più poveri, violentati e dimenticati del Messico.

Si sono sommati  allora il rifiuto popolare al tentativo  di sgombero e le richieste irrisolte di diversi settori e movimenti sociali: gli indigeni, i contadini, le donne e i sindacati tra gli altri. È sorta così l’Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca (APPO) richiesta ampia e plurale che raggruppa gran parte del movimento sociale.

E se il fattore unitario è stato la richiesta di dimissioni di  Ulises Ruiz, il pensiero e l’ideale collettivo hanno girato  intorno alla trasformazione profonda di Oaxaca. Trasformazione politica, sociale, che restituisca realtà alla Democrazia, alla Giustizia, ai Diritti Umani, l’Uguaglianza tra uomini e donne,

la Non Violenza e

la Non Discriminazione.

E a Oaxaca il popolo, cioè le donne con le loro stoviglie,  gli indigeni e le indigene, i giovani impulsivi, gli anziani e le anziane dal passo lento e la saggenzza antica, sono i creatori e le creatrici  delle barricate, delle marce di massa. Sono coloro i quali hanno espresso  il loro consenso nelle  riunioni e nei dibattiti; coloro i quali integrano le organizzazioni e nominano i rappresentanti per il tavolo unitario di negoziazione  con

la Segreteria del Governo.

Per le donne la crisi ha rappresentato un’opportunità. Centinaia di migliaia sono uscite per le strade e hanno reclamato spazi e  tempi negati loro fino a questo momento. L’organizzazione delle Donne di Oaxaca Primo Agosto è un esempio concreto, un mezzo di partecipazione di donne del popolo, formatosi  per potenziare la loro presenza e azione  all’interno del movimento stesso.

Ciò nonostante, la mobilitazione pacifica, spalla a spalla, la protesta motivata, l’iniziativa davanti al Congresso hanno dato frutti indesiderati: più di seimila effettivi della Polizia Federale Preventiva (PFP) occupano dal 29 di ottobre il centro storico della città di Oaxaca; si contano già 17 morti, 450 detenuti e detenute, ci sono ancora 30 casi di persone scomparse, innumerevoli feriti e persone prelevate dalle loro stesse abitazioni.

Tra le vittime della repressione si contano  decine di donne detenute, scomparse, minacciate e picchiate. Ci sono anche tutte quelle che hanno subito conseguenze per la repressione e per l’assassinio dei loro familiari.

Proprio  il 25 novembre scorso, paradossalmente,

la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, è stato il giorno di repressione più dura di tutto questo periodo e si stima che siano  13  le donne scomparse,  41 le detenute  e  ci sono denunce di torture e di trattamenti disumani.

Ci sono leader del movimento minacciati e arrestati, difensori dei diritti umani perseguitati, giunge voce che ci siano  più di 200 ordini di apparizione e un clima generalizzato che sembra più corrispondere agli anni ’ 70 che non al XXI secolo.


Guido Piccoli: Colombia, uno scontro interno all’oligarchia fa traballare Uribe

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Da Il Manifesto del 28 dicembre  2006

Narcos e generali, la resa dei conti
La Colombia sull’orlo del caos. Dal computer di un capo paramilitare escono nomi di politici, generali e narcotrafficanti, «committenti» di omicidi e stragi. Lo scandalo innesca confessioni, accuse, ricatti. Emerge tra gli altri il nome di un famigerato comandante, cittadino italiano: ma perché l’ambasciata d’Italia ha dato il passaporto a Salvatore Mancuso?
Guido Piccoli
Nelle prossime settimane la Colombia potrebbe conoscere un bagno di sangue peggiore di tutti quelli accaduti nella sua travagliata storia. Paradossalmente però potrebbe anche avviarsi a diventare un paese normale.
Cosa sta accadendo? L’attuale caos è stato determinato da alcuni episodi. Come il casuale ritrovamento del computer di un capo delle Auc (Autodefensas Unidas de Colombia, famigerata organizzazione paramilitare di estrema destra), Jorge 40, contenente nomi di politici e generali suoi soci. O la scoperta di decine di fosse comuni con i resti delle vittime dei paramilitari, e poi le confessioni e reciproche accuse di alcuni detenuti eccellenti, mandanti ed esecutori di omicidi. Col passare dei giorni questi scandali stanno sconvolgendo, con un imprevisto effetto domino, lo stato e la società colombiani.
C’è di più: probabilmente in Colombia è arrivato al capolinea un regime corrotto e criminale, ma anche sofisticato, fatto di democrazia formale e di terrore sostanziale. E, non a caso, accade sotto la presidenza di un personaggio come Alvaro Uribe, ricattabile per i suoi legami antichi e recenti con narcos e paramilitari, ma anche incapace di portare, nonostante i suoi metodi autoritari, una sorta di pace nel paese. Quando s’insediò la prima volta a Palacio Nariño i paramilitari cantarono vittoria e cominciarono a «passare in cassa», decisi a farsi ripagare per i loro servizi di morte per conto dello stato. «Non saremo più il rotweiler del palazzo» annunciò il loro capo, Carlos Castaño. Da allora, però, le loro ruberie e le loro pretese sono aumentate fino a diventare insopportabili anche all’oligarchia tradizionale, che si era beneficiata dei loro omicidi mirati e dei loro massacri.
La crisi attuale non è causata solo da quei pochi settori dello stato che mantengono un minimo d’indipendenza da Uribe (come la Corte Costituzionale o la Corte Suprema di Giustizia), e neppure dalla resistenza popolare al neo-liberismo, dall’opposizione legale che sta crescendo intorno al Polo Democratico o dall’azione delle Farc, per nulla intaccate dalla recrudescenza del conflitto armato.
Conta forse di più la determinazione dell’oligarchia tradizionale di non farsi estromettere da quella mafiosa e paramilitare. Alvaro Uribe non può accontentare la prima, che l’ha votato nel maggio scorso, ritenendolo «insostituibile» (come scrisse il quotidiano El Tiempo) e neppure la seconda, che gli chiede di mantenere le promesse d’impunità assoluta e di legittimazione del potere acquisito col sangue.
I boss chiedono protezione
Come un Arlecchino creolo «servitore di due padroni», Uribe non sa più come destreggiarsi nella contesa che contrappone i paramilitari e la Casa Bianca, che vorrebbe rinchiudere questi ultimi nelle carceri statunitensi, anche se solo nella veste di narcos. Il presidente vive ormai alla giornata, senza una strategia. Una settimana fa ha fatto trasferire i capi paramilitari dal club turistico, dove godevano di ogni confort e della più assoluta libertà, al supercarcere di Itaguì. Forse Uribe voleva ammansire gli Stati uniti, sempre più irritati dall’immunità «politica» concessa ai narcos.
Se è vero che in Colombia sono stati sistematicamente insabbiati tutti gli scandali, per Uribe e il suo schieramento, sembra essere arrivata l’ora della resa dei conti. Tutti accusano tutti: perfino Uribe ha denunciato la tolleranza verso i paras dei presidenti che l’hanno preceduto.
I capi paramilitari, che minacciano di rivelare le loro relazioni con lo stato e la politica, temono di essere scaricati come fu a suo tempo il gran capo Pablo Escobar. E proprio come fece il boss, nei suoi ultimi anni, chiedono protezione alla sinistra. Uno di loro, tale Salvatore Mancuso, ha chiamato il senatore Gustavo Petro, ex guerrigliero dell’M-19 e ora esponente del Polo Democratico, diventato (anche per il suo ruolo di denuncia del para-stato) il più probabile candidato d’opposizione in caso di elezioni anticipate.
In un’intervista pubblicata in prima pagina da El Tiempo domenica scorsa proprio Petro, oltre a definire i paramilitari «sicari alle dipendenze di uno stato mafioso», ha fatto previsioni tetre: «I datori di lavoro del paramilitarismo — narcos, generali dell’esercito e della polizia, politici, imprenditori — i cui nomi stanno per essere resi pubblici, cercheranno di impedire che la verità venga a galla. Alcuni nuclei tenteranno destabilizzare il paese e generare un caos cieco, colpendo non soltanto l’opposizione, il Polo, me e la mia famiglia, ma anche lo stesso presidente Uribe». Per evitare di finire come tanti altri coraggiosi colombiani che si sono opposti al terrorismo statale, Petro gira con un giubbotto antiproiettile e una scorta di una ventina di guardie del corpo.
Secondo Petro, anche Uribe rischia. Sebbene sia l’ultimo governante di fiducia degli Usa nel loro traballante «cortile di casa», Uribe potrebbe essere scaricato dalla nuova maggioranza democratica a Washington. E saltare: letteralmente (per opera dei suoi soci) come paventato da Petro, o pacificamente, grazie a un «impeachment», possibile per il contributo decisivo e documentato dei paramilitari alle sue due elezioni presidenziali o perchè coinvolto dagli scandali di questi giorni, visto che tutti i personaggi accusati di paramilitarismo sono amici suoi.
In questa polveriera appare sempre più decisivo il ruolo del Polo Democratico, unica forza capace di far uscire il paese dal caos. Magari alleandosi con la parte del partito liberale non coinvolta col paramilitarismo, e anche intavolando un dialogo con la guerriglia che resiste senza difficoltà alle roboanti quanto impotenti azioni militari del nuovo Plan Victoria (discendente dei falliti Plan Patriota e Plan Colombia). «Questa emergenza merita la convocazione urgente di nuove elezioni. Bisogna lavorare per un’alleanza che salvi la nazione. Le organizzazioni politico-sociali, i partiti e i movimenti democratici, i militari rispettabili, tutti i colombiani che hanno a cuore la patria devono unirsi per costruire un’alternativa decorosa al governo», ha detto Ivan Márquez, comandante delle forze guerrigliere nel nord della Colombia membro del segretariato delle Farc. Almeno nell’opposizione, la politica potrebbe prendere il sopravvento sulle armi.
«El Mono» e la ‘Ndrangheta
Nel frattempo quel Salvatore Mancuso sta diventando un caso — anche in Italia, visto che è un cittadino italiano. Detto «El Mono», la scimmia, da anni alterna le stragi di umili contadini con i trasporti di droga nell’Atlantico. Molti fingono di non saperlo. Stando alle intercettazioni telefoniche che un mese fa hanno reso possibile l’operazione «Galloway Tiburon» (realizzata dalle polizie italiana, spagnola, colombiana e dalla Drug Enforcement Administration, l’antidroga statunitense, e conclusa con un centinaio di arresti), qualcuno della nostra ambasciata di Bogotà avrebbe concesso a Mancuso il passaporto italiano, prendendo per buona la sua dichiarazione di buona condotta. «Mancuso potrà viaggiare tranquillamente in Italia per realizzare i progetti che ha in mente», diceva il suo amministratore di fiducia parlando con Giorgio Sale, un imprenditore romano, arrestato insieme con i suoi tre figli con l’accusa di riciclare, attraverso ristoranti, pub e una cinquantina di negozi di abbigliamento di Bogotà, Barranquilla e Cartagena, i ricavi del narcotraffico
del boss.
Nell’operazione è caduto anche un pezzo da novanta, José Alfredo Escobar, presidente del Consiglio superiore della magistratura colombiana, che controlla le risorse della giustizia, la carriera dei magistrati e ha la facoltà di distribuire i casi ai tribunali civili o a quelli militari. Secondo gli inquirenti, dall’inizio dell’indagine, le Auc avrebbero fatto arrivare otto tonnellate di cocaina purissima, soprattutto sulle banchine del porto di Goia Tauro, destinate alle varie famiglie della ‘Ndrangheta diventata, secondo la Direzione Centrale per i Servizi Antidroga, egemonica nel «traffico internazionale di cocaina, grazie ai canali diretti di approvvigionamento dai Paesi del Sudamerica e alla dimostrata abilità nel gestire complessi sistemi di riciclaggio». Agli occhi dei narcos colombiani, «la ‘Ndrangheta è l’organizzazione più affidabile, perchè quasi impermeabile al fenomeno del pentitismo», ha detto Nicola Gratteri, giudice della direzione antimafia di Reggio Calabria.
Per ora il sogno di Salvatore Mancuso di tornare con i suoi immensi bottini di guerra nella terra dei suoi avi paterni, sulla costa meridionale salernitana, è sfumato: a causa dell’iniziativa della magistratura italiana, che rimase inerte dopo altre inchieste che l’avevano coinvolto in passato (come la «Decollo» del gennaio 2004). Nei prossimi giorni, su richiesta di Nicola Gratteri, dovrebbe partire la richiesta di estradizione del leader delle Autodefensas Unidas de Colombia per narcotraffico.
Le possibilità che Mancuso arrivi ammanettato in Italia sono al momento nulle, vista l’immunità concessa a lui, all’intero vertice narco-paramilitare e al loro esercito dal presidente Alvaro Uribe. Ma questo provvedimento agevolerebbe comunque la comprensione della natura del parastato colombiano da parte del nostro governo.
Tra gli interlocutori della Farnesina non sono mancati sinistri figuri. Coloro che dirigevano fino a pochi mesi fa l’ambasciata e il consolato di Milano, Luis Camilo Osorio e Jorge Noguera, quando erano a capo della Fiscalía (la magistratura inquirente) e del Das (la più potente delle polizie segrete colombiane), facilitarono spudoratamente la penetrazione paramilitare nelle istituzioni colombiane. L’attuale ministro degli esteri, María Consuelo Araújo, ha un fratello senatore indagato per paramilitarismo e fa parte di una famiglia sotto protezione del capo paramilitare Jorge 40. Infine il nuovo ambasciatore a Roma, Sabas Pretelt: quando era alla direzione del ministero degli Interni e della Giustizia (significativamente unificati sotto il regime uribista) fu l’architetto del farsesco «negoziato» con le Auc e in quella veste assicurò ai capi paramilitari che non avrebbe fatto estradare negli Usa se si fossero impegnati a far vincere nelle scorse elezioni Uribe e lui in quelle del 2010 — questo secondo le confessioni di alcuni capi paras riportate sull’ultimo numero della rivista Cambio. Tutta gente «per bene» con troppi scheletri nell’armadio.

Amnistia? Impunità per i «paras»
La legge di «giustizia e pace» è un indulto di fatto generalizzato per i paramilitari. «Ha offerto legittimità internazionale a assassini, terroristi e capi narcos», secondo Amnesty. L’Unione europea esprime dubbi, ma ha dato un «appoggio condizionato»
G. P.
«Immaginati in fila con altri disgraziati, legato mani e piedi, sulla riva del rio Magdalena. Di fronte a te, due uomini che affilano i loro machete. E intorno, i tuoi familiari e gli abitanti del villaggio che ascoltano i tuoi gemiti di terrore, e le tue urla quando ti squarteranno e nessuno potrà avvisare la polizia per non finire, quella stessa notte, a pezzi nel fiume. Adesso a quei due, come a tutti gli altri, Uribe ha applicato un paio d’ali da angelo. Ma che cazzo di paese è il nostro?». Questo è il commento di un lettore di Tiempo alla notizia dell’indulto che il governo Uribe ha concesso ai membri delle Auc: impunità su misura per i paramilitari che hanno aderito alla «Legge di Giustizia e Pace».
Il decreto governativo sancisce che l’indulto sia applicato soltanto a coloro che non risultino colpevoli di «delitti di lesa umanità». In realtà significa a tutti, o quasi, visto che i giudici inquirenti non hanno tempo e mezzi (e forse nemmeno voglia) per indagare sulle malefatte di ciascuno e visto che è difficile che eventuali vittime o testimoni dei loro delitti vincano la sfiducia nella giustizia e il terrore ancora esercitato dai paras in molte regioni.
A quei due delle Auc, come a tutti gli altri, basterà quindi una semplice autocertificazione per uscire puliti. Obbrobri del genere, che stanno alla base della legge di Giustizia e Pace e fanno da cornice giuridica alla legalizzazione delle Autodefensas, non sono bastate finora a indignare l’Unione europea. Pur continuando ad esprimere dubbi sull’effettivo smantellamento delle strutture paramilitari, la vaghezza della definizione del delitto politico, l’insufficiente tempo per indagare sulle confessioni e sull’insufficienza delle pene massime previste, l’ultima dichiarazione del Consiglio dei ministri europei sulla Colombia del 3 ottobre 2005 ribadisce il suo appoggio al governo Uribe e alla sua «politica di pace».
Sono rimaste inascoltate le proteste degli organismi di diritti umani colombiani e di Amnesty International che ha accusato l’Unione Europea di «offrire una legittimità internazionale a una legge che non rispetta le norme su verità, giustizia e riparazione», e che secondo il New York Times garantisce «l’impunità per una massa di assassini, terroristi e capi narcos». Tra la Francia, che si è detta contraria alla farsa in atto, e la Spagna di Zapatero, la Gran Bretagna e la Germania, che la sostengono, è finora prevalsa la linea, ambigua e ipocrita, portata avanti da Italia, Olanda, Danimarca e Finlandia di «appoggio condizionato», con richieste di modifica sistematicamente ignorate da Bogotà e impegni di verifica che si rivelano cortine di fumo.
«Invece di aiutare le vittime, i finanziamenti europei rischiano di sostenere il reinserimento bellico dei paramilitari», sostiene l’eurodeputato Vittorio Agnoletto del gruppo della Sinistra Europea. Buona parte dei soldi infatti finisce nelle regioni, in progetti di ridistribuzione di ex paras (come nel caso dei cosiddetti «guardaboschi»), che ubbidiscono soltanto alla logica di «controllo territoriale militare» da parte del governo centrale.

Salvatore Mancuso
La carriera di un massacratore
Tra i massacri di cui Salvatore Mancuso è stato mandante o esecutore (e per i quali potrebbe scontare al massimo una condanna di 8 anni, grazie alla legge del suo socio e vicino di fattoria Alvaro Uribe), i più noti sono quelli di El Aro, nella regione di Antioquia, e di El Salado, in quella del Sucre. A El Aro, il 22 ottobre 1997, trenta suoi uomini del Bloque Catatumbo torturarono e ammazzarono 14 contadini, tra i quali un tredicenne, dopo aver incendiato e saccheggiato le loro case. A molte vittime furono strappati gli occhi e i genitali. Per questo massacro, Mancuso è stato condannato a 40 anni di carcere.
A El Salado, en Sucre, il 16 febbraio 2000, 38 contadini (tra i quali un bambino di 6 anni) furono mutilati atrocemente prima di essere uccisi. Prima di dare il colpo di grazia, i paras obbligarono le loro donne a denudarsi e a ballare al suono di un vallenato. Secondo Amnesty International, le donne furono violentate.
Il 19 dicembre scorso, dopo un conflitto a fuoco in un villaggio della regione di Antiochia, che ha provocato due vittime, è stato catturato un altro italo-colombiano delle Auc: Alberto Laino Scoppeta, proprietario di una rivendita di auto blindate ed erede di Jorge 40 alla testa del Bloque Norte. L’uomo stava per ritornare in Italia. Un altro «angioletto» col passaporto in regola? (g.p.)



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