Ritorno dell’impunità in Uruguay?

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Immediata cancellazione di tutti i processi che erano stati aperti contro ex militari per i crimini da loro commessi tra gli anni 1973 e 1985

di Annalisa Melandri — in esclusiva per L’Indro — 1 Marzo 2013

Torna l’impunità in Uruguay, almeno per quanto riguarda i crimini commessi durante l’ultima dittatura (1973–1985). Se la legge emanata il 27 di ottobre del  2011, la 18.831, con la quale si dichiaravano imprescrittibili i reati commessi dai militari durante tale periodo e si ristabiliva il pieno esercizio della “pretesa punitiva dello Stato per i delitti commessi in applicazione del terrorismo di Stato”, aveva sancito un enorme passo in avanti verso l’apertura di molti processi ancora in sospeso in Uruguay,  la sentenza  della Corte Suprema di Giustizia approvata per maggioranza la settimana scorsa da quattro dei cinque giudici che la compongono,  segna veramente il ritorno al passato più oscuro, dal quale il paese, a fatica e a colpi di leggi, decreti e referendum, sta cercando in questi anni di venire fuori. 

Il massimo organo della giustizia uruguaiano ha dichiarato, infatti, incostituzionali gli articoli due e tre  della legge 18.831e lo ha fatto soprattutto sulla base dell’argomentazione secondo la quale la legge non può applicarsi in maniera retroattiva. Tale sentenza viene a negare pertanto, uno dei principi fondamentali sulla quale si fonda la giurisprudenza internazionale in materia di difesa dei diritti umani e cioè l’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità sancita dalla Convenzione adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 26 novembre 1968, entrata in vigore l’11 novembre 1970 e ratificata  dall’Uruguay nel 2001.
La sentenza, che ha provocato proteste in Uruguay e ha suscitato  critiche a livello internazionale da parte delle maggiori associazioni per la difesa dei diritti umani, provocherebbe l’immediata cancellazione di tutti i processi che erano stati aperti contro ex militari per i crimini da loro commessi tra gli anni 1973 e 1985.

Anche se il portavoce della Corte Suprema di Giustizia, Raúl Oxandabarat, ha detto alla stampa locale  che “la dichiarazione di incostituzionalità dei due articoli della legge che impediva la prescrizione dei delitti della dittatura non significa l’archiviazione automatica di tutte le cause aperte per quei crimini” perché  la Corte Suprema di Giustizia esamina i casi singolarmente e che i giudici hanno indipendenza per applicare la legge come meglio credono,  la portata negativa di tale sentenza è evidente ed essa, come ha dichiarato Amnesty International in un comunicato stampa volta le spalle alle vittime delle gravi violazioni dei diritti umani commesse fino a marzo del 1985 e minaccia di lasciare nell’impunità centinaia di casi in cui già sono state avviate le indagini”.

È evidente che le dichiarazioni di Oxandabarat sono state rilasciate dopo la lettura della sentenza per tranquillizzare la cittadinanza, le associazioni dei familiari delle vittime della dittatura e alcune delle principali forze politiche di sinistra del paese, tra i quali l’ufficialista Frente Amplio, che già hanno già annunciato proteste in tutto il paese. La sentenza è stata emessa accogliendo un ricorso di incostituzionalità presentato dagli avvocati di due militari, i colonnelli Rudyard Scioscia e Mario Cola,  accusati di torture e sparizioni forzate.

Alla gravità della sentenza, che segna un precedente e un punto a favore dell’impunità, va aggiunta inoltre l’improvvisa  rimozione, sempre da parte della Corte Suprema di Giustizia, della giudice Mariana Mota, il 15 febbraio scorso, e il suo successivo trasferimento dalla sezione penale a quella civile. La giudice era titolare di oltre cinquanta processi contro ex militari ed era stata accusata dall’ex presidente della Repubblica, Julio María Sanguinetti (lo stesso che aveva definito i due articoli della legge 18.831 che sancivano l’imprescrittibilità dei crimini commessi dalla dittatura come una ‘aberrazione’), di agire come una ‘militante’, per  la sua vicinanza alle associazioni dei familiari delle vittime della dittatura. La rimozione della giudice Mota, voluta da militari contrari ai processi della dittatura e da un settore politico vicino ad essi, è stata accompagnata da manifestazioni di solidarietà e da proteste. Grazie al suo lavoro, infatti, nel febbraio del 2010 l’ex dittatore Juan Marìa Bordaberry venne  condannato a 30 anni di carcere e 15 di arresti domiciliari per 11 delitti di lesa umanità (2 omicidi politici e la sparizione forzata di 9 cittadini) e per “attentato alla Costituzione”.  L’ex dittatore tuttavia, non ha scontato nemmeno un giorno di prigione perché lo scorso anno è deceduto all’età di 83 anni.

Ora, con la sentenza della Corte Suprema di Giustizia, viene ancora una volta ristabilita l’impunità in Uruguay.
È tormentato e pieno di contraddizioni il cammino verso la ricerca della giustizia e della verità storica nel piccolo paese del Cono Sud. È stato  proprio il popolo uruguaiano, chiamato a consulta ben due volte, nel 1989 e nel 2009,  a respingere la possibilità di revocare la legge n. 15.848 di “Decadenza della Pretesa Punitiva dello Stato” promulgata nel 1986 dal primo governo di Julio María Sanguinetti e meglio nota ai suoi detrattori come “Legge dell’Impunità” con la quale in pratica lo Stato rinunciava a far valere la giustizia per i crimini commessi dai militari (ma anche dai  civili che  agivano in suo nome e conto) fino al 1985.

La dittatura in Uruguay e quella in Brasile, sono state  definite entrambe “dictablandas” perché non hanno  registrato  l’enorme numero di morti e di persone scomparse che hanno caratterizzato invece quella argentina e cilena,  tuttavia si inserirono entrambe pienamente in quel  ‘coordinamento generale’ delle dittature latinoamericane portato avanti con l’appoggio degli Stati Uniti  e noto come Plan Condor.
In Uruguay, i militari, dopo il golpe del 1973 ad opera di Juan María Bordaberry, che detenne il potere  fino al 1976, mantennero il regime dittatoriale fino al 1985.
In dodici anni morirono nelle carceri del paese circa un centinaio di prigionieri politici e il numero delle persone scomparse (comprensivo anche di cittadini uruguaiani fatti sparire in altri paesi della regione dal Plan Condor) è di 140, secondo la Commissione della Verità istituita nel 2000 per far luce sui crimini commessi durante quel periodo.
Resta tuttavia ancora molto da fare sia in ambito investigativo,  che processuale e normativo, ma soprattutto legislativo, per far sì che il paese sia in linea con le obbligazioni assunte a livello internazionale con tutti i trattati e le convenzioni ratificate negli anni dall’Uruguay in materia di diritto internazionale a partire dal secondo dopoguerra ad oggi.

Il presidente José Mujica, del Frente Amplio, un ex guerrigliero  del Movimento di Liberazione Nazionale –Tupamaros, in carica dal 2010, che ha pagato in passato con il carcere la sua opposizione alla dittatura, ha fatto vari tentativi per riportare il paese sui binari della giustizia internazionale e ha dimostrato grande apertura alle richieste dei familiari delle vittime della dittatura, per ultimo emanando nell’ottobre del 2011 proprio la legge 18.831, adempiendo così ad una richiesta esplicita in tal senso della Corte Interamericana dei Diritti Umani, ma  oggi dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema di Giustizia.

Pochi mesi prima dell’emanazione della legge, nel  marzo del 2011,  la CIDH infatti,  aveva condannato lo stato uruguaiano per la sparizione forzata di María Claudia García, nuora del poeta argentino Juan Gelman. María Claudia, incinta di otto mesi e suo maritoMarcelo Ariel, il figlio di Gelman, entrambi giovani militanti politici, erano stati arrestati in Argentina. Il ragazzo fu immediatamente ucciso e Maria Claudia venne trasferita in Uruguay nell’ambito del Plan Condor. A Montevideo, dopo aver dato alla luce una bambina, si persero completamente le sue tracce. La bambina, Macarena Gelman, soltanto dal 2000 ha conosciuto la sua vera identità e ha deciso di adottare il cognome paterno, dopo aver finalmente riabbracciato suo nonno che non aveva mai smesso di cercarla.

La CIDH  aveva inoltre intimato allo Stato di “prendere le misure necessarie affinché la Legge di Decadenza della Pretensione Punitiva dello Stato smetta di rappresentare un ostacolo per le indagini delle cause”.
La legge 18.831,  pur non eliminando completamente la Legge dell’Impunità,   la modificava in alcuni passaggi,  nel lodevole quanto difficile tentativo di mettersi in linea con quanto disposto dalla CIDH.

Non basta evidentemente sancire nelle urne il passaggio alla democrazia, dittature come quelle dell’Uruguay e del Brasile, pur non avendo lasciato dietro di sé migliaia di morti o di persone scomparse (come non pensare ad esempio ai 30mila desaparecidos argentini)  hanno lasciato evidenti cicatrici nel tessuto sociale del paese,  manifestate dall’incapacità  nel  riuscire a fare  i conti con il proprio passato,  soprattutto da parte della popolazione, che se pur oggi protesta contro  la sentenza della Corte Suprema di Giustizia, appena nel 2009 respingeva la proposta di revoca della Legge dell’Impunità.

Il rispetto per i diritti umani, la nozione di Stato di Diritto, il rispetto delle norme di diritto internazionale penale inteso come contenitore globale  di principi e di valori ai quali ogni paese deve attingere e al quale deve dare il proprio contributo per una politica di difesa dei diritti umani che sia veramente universale, come si vede, è un qualcosa che prima di far parte dell’apparato legislativo di un singolo paese,  ne deve costituire la sua spina dorsale a livello culturale.

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