Delta del Niger: il Mend dichiara l’inizio di ” una grande guerra del petrolio”

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“…Loro vivono lì e noi qui. Già. Oggi mentre tornavo a casa guardando gli stranieri ed in particolare gli africani alle fermate dell’autobus pensavo che una volta si andava dall’Europa a prenderli con le navi mentre ora per diventare “schiavi” come i loro antenati devono pure pagarsi il viaggio su barconi fatiscenti…Così va il mondo, purtroppo, nell’indifferenza generale, in una sorta di egoismo legalizzato e il dramma che ogni giorno va in scena in tutti i Delta del Niger del mondo sembra proprio non appartenere a nessuno…” (un commento sul sito Portametronia)
di Edo Dominici per A Sud
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Nel Delta State l’esercito attacca un campo del Mend sarebbero almeno 200 i militanti uccisi, tra loro potrebbe esserci Government Ekpemukpolo alias Tompolo . Ucciso da un “colpo vacante sparato dall’esercito” uno degli ostaggi filippini.
 
Una giornata di combattimenti e comunicati, di morti reali o presunti ‚di vittorie schiaccianti e di smentite, in una regione nella quale i giornalisti non sono tollerati dall’esercito e dove spesso anche i rari quotidiani locali hanno difficoltà a verificare sul campo quanto sta realmente accadendo. Il bilancio degli scontri di venerdì, secondo il Vanguard , tra civili, soldati e militanti potrebbe essere di oltre 250 morti.
Il Movimento per l´emancipazione del delta del Niger (Mend) oggi ha ribadito la dichiarazione di «guerra totale» in tutta la regione del Delta del Niger.
 
«Il Mend dichiara guerra nella regione e invita tutti gli uomini adulti a sostenere la lotta per la nostra libertà – si legge in una dichiarazione pubblicata dai media nigeriani — Le forze armate nigeriane venerdì hanno eseguito bombardamenti aerei indiscriminati sulla popolazione civile inerme nella zona di Gbaramatu nel Delta State come punizione per l´umiliante sconfitta subita quando mercoledì 13 maggio quando i reparti della JTF (le forze speciali dell’esercito nigeriano) hanno cercato di assalire con un raid due campi di militanti.
 
Le vittime del bombardamento sono soprattutto donne, bambini e anziani che non sono potuti fuggire rapidamente nella boscaglia o in mare aperto. Considerato che questi sono i bersagli presi di mira dal governo per difendere la sua falsa pace e la finta proposta di amnistia, il nostro scetticismo si è rivelato più che corretto. Ribadiamo ancora una volta il nostro ordine a tutte le compagnie petrolifere di evacuare entro il termine della mezzanotte di oggi (Venerdì) e di cessare la produzione di petrolio fino a nuovo avviso. Questa è l´ultima volta che un tale avviso viene rilasciato».
 
Oggi la marina e l’esercito nigeriano hanno nuovamente attaccato i militanti del Campo 5 del Mend, comandato da Tom Polo, lungo il Chanomi Creek nel Delta, lo stesso attaccato mercoledì . Secondo Jonjon Oyeinfe, ex leader del Ijaw Youth Council, scontri sono in corso anche sul fiume nelle vicinanze del terminale della Chevron di Forcados.
 
Il portavoce dell’esercito, il colonnello Rabe Abubakar ha detto che le forze armate nigeriane hanno attaccato il Campo 5 con mezzi pesanti compresi cannoni e copertura aerea «per scovare i criminali dopo il dirottamento di due petroliere (tra cui la MV Spirit), gli attacchi contro i soldati e le minacce alle imprese petrolifere perché evacuassero il loro personale nel corso degli ultimi giorni. La task force militare non può alzare le mani e consentire che questo tipo di eventi continuino».
 
Secondo il portavoce dell’esercito l’operazione ha avuto inizio a Oporoza dove c’era poca resistenza all’attacco dei militari. Il conflitto a fuoco è avvenuto dopo che i militanti hanno lasciato il grande Campo 5.
Dopo il raid ad Oporoza i soldati si sono trasferiti vicino Kunukunuma e Okerenkoko, tutto intorno alle insenature di Chanomi dove i militanti si sarebbero ritirati.
 
Secondo il colonnello Abubakar il comandante dei militanti del Campo 5 Government Ekpemukpolo alias Tompolo potrebbe essere rimasto ucciso, ma la notizia non può essere verificata. Sempre secondo il portavoce militare i militanti uccisi sarebbero più di 200.
 
In serata Jomo Gbomo portavoce del Mend ha comunicato che durante l’attacco uno degli ostaggi, tutti di nazionalità filippina, è rimasto ucciso colpito da una pallottola vacante sparata dall’esercito.
Intanto la direzione della Shell Petroleum Development Company (SPDC) ha riferito che ha cominciato ad evacuare il proprio personale dalla travagliata area mentre la Chevron Nigeria Limited (CNL) ha dato delle restrizioni alla circolazione dei lavoratori all’interno degli impianti.
 
Difficile dire cosa sta realmente accadendo e dove possa portare questo conflitto. Tra comunicati e smentite di vittorie vere o presunte c’è la certezza di 20 milioni di civili che vivono con meno di un dollaro al giorno in una zona ricchissima di petrolio e sono spesso loro le vittime inermi del conflitto che ormai rischia di coinvolgere tutte le comunità e gli Stati del delta del Niger.
 
In questi tre giorni i combattimenti si sono svolti tutti nel Delta State, ora il rischio concreto che la “guerra del petrolio” si estenda agli altri Stati della regione è sempre più concreto, soprattutto nel Bayelsa e nel Rivers dove ci sono numerosi gruppi affiliati al Mend.
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Questa invece è un’agenzia Apcom sulla situazione rispetto all’Italia:
Roma, 13 feb. (Apcom) - Il Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger (Mend) rilancia gli attacchi contro la compagnia petrolifera italiana Agip in Nigeria e alza il tiro parlando di una “grande guerra del petrolio”. “Il Movement for the Emancipation of the Niger Delta (Mend) è venuto a sapere che un individuo senza scrupoli chiamato ‘Octopus’ (piovra) ha rassicurato l’Agip di poter sventare l’attacco programmato contro le aziende italiane sul Delta del Niger”, ha affermato il portavoce dei ribelli, Jomo Gbomo, in un’email inviata ad Apcom. Quest’uomo — prosegue Gbomo — è la stessa persona che ha “pagato un riscatto con l’aiuto della famiglia Daukoru e il primo pronto a negare pubblicamente di aver pagato un riscatto”. Il portavoce si riferisce a Gladys Daukoru, la moglie dell’ex ministro dell’Energia, Edmund Daukoru, rapita a inizio febbraio a Port Harcourt e rilasciata pochi giorni dopo, secondo il Mend, grazie al pagamento di un riscatto di 2,5 milioni di dollari. Per fugare ogni dubbio, Il movimento dei ribelli nella mail, sottolinea: “Vogliamo ribadire ancora una volta la nostra determinazione a danneggiare gli affari italiani a tempo debito”. Il Mend afferma di aver respinto l’offerta di denaro e la richiesta della “piovra” e dei suoi soci criminali dentro l’Agip per rovesciare la decisione. E non finisce qui. Nel mirino del Mend c’è ancora il ministro degli Esteri Franco Frattini, in tour in Africa in questi giorni: “E’ piuttosto spiacevole che invece di venire in Nigeria con un ramo d’olivo, il ministro italiano abbia scelto di venire con un ‘regalo greco’ che porterà ora a una grande guerra del petrolio”. Le sue affermazioni mostrano chiaramente, ha concluso Gbomo, che “il governo italiano ha scelto ancora una volta di stare con la parte sbagliata come fece Mussolini”. Quando la guerra sarà terminata e il Delta del Niger “emancipato”, il Mend “ricorderà solo quei paesi che sono stati dalla parte della giustizia”.

Pietro Orsatti: A schiena dritta, cronache dall’ultima guerra di Cosa Nostra

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Polifonia / Attori
A SCHIENA DRITTA
CRONACHE DALL’ULTIMA
GUERRA DI COSA NOSTRA
di
Prefazione di
Sergio Nazzaro
formato: 13,5x21
pagine: 228
prezzo: € 18,00
ISBN: 978–88-95265–26-1
uscita: maggio 2009
Un anno di reportage e inchieste sulla riorganizzazione di Cosa nostra dopo i clamorosi arresti di Bernardo Provenzano e Salvatore Lo Piccolo. Partendo dai clan “periferici” della
mafia rurale di Partinico, ai massimi sistemi e alle inquietanti connessioni con pezzi dello
Stato. Un viaggio in una Sicilia che tenta di reagire e di modificare un percorso di emarginazione
sia dal punto di vista sociale che sul piano della legalità.
Un’inchiesta che punta anche all’emersione e all’analisi di figure criminali considerate erroneamente
marginali e che, alla luce di una vera e propria guerra di mafia in atto in questo
periodo, si rivelano come ai vertici del sodalizio criminale.
Pietro Orsatti, nato a Ferrara, vive e lavora a Roma. Attualmente redattore del settimanale left–
Avvenimenti e collaboratore di varie testate fra le quali Terra, Agoravox.it, Dazebao, Liberazione,
Arcoiris.tv e Telejato. Ha collaborato con numerose testate giornalistiche fra le quali Diario, il manifesto,la Nuova Ecologia, Rai, Telesur. Alterna il lavoro giornalistico con quello di autore e regista
teatrale e di documentari.
SOCIALMENTE, VIA XXV APRILE 19, 40057 GRANAROLO DELL’EMILIA (BO)
TEL. 051–763106 — FAX 051–763190
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DISTRIBUZIONE PDE

Proteste a Napoli

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Un gruppo di persone oggi ha bruciato un autobus a Napoli.  Sempre nella mattinata alcuni  disoccupati hanno fatto irruzione nella sede del coordinamento regionale del Pdl.

“Se pensate di essere al sicuro, se pensate che le rivolte non potranno trasformarsi in rivoluzioni, è tempo di rivedere il vostro modo di pensare”

(Percival James Patterson , primo ministro della Giamaica alla riunione del G77 del 2008) 


Appello agli studenti per boicottare Israele

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Questa lettera è presa dal sito Boicotta Israele, e sarebbe utile farla circolare come meglio si può… attaccarla nelle bacheche delle scuole, ai cancelli o davanti gli ingressi dei parchi. Insomma… impariamo l’importanza dei boicottaggio ! e magari riprendiamo anche quelle belle usanze dell’attacchinare e volantinare in quartiere, nei propri posti di lavoro, nelle scuole… (Grazie Vale! : - ) )

di Boicotta Israele

 

 

Tra qualche giorno, care ragazze e ragazzi delle scuole elementari e medie avrete finito questa fatica. Sarete sicuramente promosse e promossi, ma se anche dovesse esserci qualche complicazione, qualche piccolo inciampo… suvvia non sarà la fine del mondo. Avete una vita davanti e tutto il tempo per recuperare brillantemente qualsiasi rallentamento e andare ancora più avanti. 
Alla vostra età si ha il tempo dalla propria parte, è un prezioso alleato il tempo, non dimenticatelo.  
 
Comunque vada sarà stato un anno importante. Avete imparato tante cose, fatto conoscenze interessanti, avete approfondito conoscenze precedenti…  
 
Ricordate? Ogni mattina vi recavate, casomai un po’ insonnolite/i, con i vostri libri, quaderni, matite, pennarelli, che poi utilizzavate per trascorrere ore piacevoli e interessanti… Fermiamoci qui un momento e pensiamo: siamo sicuri che per tutti i bambini e le bambine del mondo ogni mattina era così ?  
 
Macchè! Sono 100 milioni (fonte-Unicef) i ragazzi e le ragazze che non hanno la possibilità di andare a scuola: guerre, povertà, oppressione…  
 
Prendiamo un esempio non lontano da noi: i vostri fratellini e sorelline palestinesi (sono duecentomila a Gaza) anche quando le bombe avevano smesso di cadere e nessuno sparava più, non potevano andare a scuola con i libri, quaderni, matite negli astucci colorati. Perchè?  
 
Semplicemente perché i burocrati del governo di Israele, che mantiene uno stretto controllo su questa piccola striscia di terra lungo il Mediterraneo e sui suoi abitanti, anche dopo il ritiro dei coloni israeliani nel 2005, ritiene che la carta e l’inchiostro non siano “bisogni umani fondamentali”… e questa non è una bella cosa.  
 
Anzi è una cosa talmente brutta che bisogna mettercela tutta per farli smettere.  
 
Si può fare qualcosa? Certo! Dite ai vostri genitori, per esempio, di non comprare più i prodotti israeliani, che sono quelli che hanno il “codice a barre” che inizia con 729.  
 

Per maggior informazioni leggi qui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fiat e chiusura stabilimenti : il segreto di Pulcinella

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Fiat Cobas

per una nuova resistenza operaia…

I sindacati italiani sono “arrabbiati” e “preoccupati” perchè hanno saputo oggi, dai loro colleghi tedeschi che la Fiat starebbe progettando la chiusura di Termini Imerese e il ridimensionamento di Pomigliano d’Arco.
 
Gli operai invece lo sapevano già da tempo, almeno da un anno, come testimoniato da Mimmo Mignano in quest’intervista rilasciata a Radio Onda Rossa il 6 maggio scorso.
 
Fanno finta di non averlo mai saputo? Possibile che non hanno mai chiesto a Marchionne che fine avrebbero fatto gli operai italiani con la crisi in corso?
 
Quando cominceranno ad  ascoltare i lavoratori? Quando decideranno da che parte stare?


Colombiani e Colombiane per la Pace: la società civile dialoga con le FARC per la soluzione del conflitto.

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Piedad Cordova  e Alfonso Cano

Il comitato “Colombiani e Colombiane per la Pace” promosso dalla senatrice Piedad Córdoba e che ha tra i suoi membri Iván Cepeda (figlio di Manuel Cepeda il senatore dell’Unidad Patriótica ucciso il 9 agosto del 1994 dai paramilitari) e portavoce  del MOVICE, Movimento Nazionale delle Vittime dei Crimini di Stato,  ha dal mese di settembre  2008 avviato  una corrispondenza epistolare con la guerriglia colombiana delle FARC-EP, volta alla liberazione degli ostaggi ma anche alla costruzione di una soluzione pacifica del conflitto colombiano.
 
Il dialogo  tra il Comitato e le FARC  ha già dato risultati positivi e questa importante iniziativa fa ben sperare per il futuro,  infatti nel mese di febbraio scorso la guerriglia  ha liberato unilateralmente 6 ostaggi e ha promesso la liberazione senza condizioni  del soldato Pablo Moncayo, prigioniero da oltre 11 anni.
 
Il governo colombiano invece sembra essere il grande assente in questa mediazione, anzi in più di un’ occasione ha respinto  il ruolo di mediatrice della senatrice Piedad Córdova e ha addirittura rischiato di compromettere il buon esito della liberazione degli ostaggi per la presenza di numerose attività militari nella zona dove questa sarebbe dovuta avvenire.
 
Anche l’altra guerriglia colombiana, l’Esercito di Liberazione  Nazionale (ELN) ha chiesto l’appoggio di “Colombiani e  Colombiane per la Pace” per la risoluzione pacifica del conflitto.
 
In una lettera del gennaio scorso indirizzata al Comitato, l’ELN (che in passato già aveva  intrapreso diverse forme di negoziazione con il governo),   scrive che “il principale ostacolo per la continuità del processo di dialogo è la pretesa che ha il governo colombiano che l’ELN sia localizzato e i suoi membri identificati come condizione primaria  di qualsiasi iniziativa, negandosi a costruire un’agenda politica e sociale che permetta trattare a fondo i problemi strutturali che sono la causa originaria del conflitto”.
 
Poche settimane fa la risposta di Colombiani e Colombiane  per la Pace e l’impegno assunto da questi per “contribuire a che il governo nazionale e l’ELN riprendano il cammino del dialogo che conduca fino alla soluzione politica negoziata”.
 
Il presidente colombiano Álvaro Uribe appare sempre più isolato nel suo ostinarsi a perseguire una soluzione militare del conflitto colombiano. Anche adesso che si profila imminente il rilascio da parte della guerriglia  di Pablo Moncayo si susseguono le notizie di un’imminente azione militare dell’Esercito volta alla sua liberazione.
 
Contro questa decisione hanno  preso ferma posizione sia il Comitato Colombiani e Colombiane per la Pace sia  la famiglia del soldato Moncayo, ma lo hanno fatto  anche gli altri ex-ostaggi liberati nei mesi scorsi dalla guerriglia  e cioè  Alan Jara Urzola, Consuelo Gonzáles de Perdomo, Clara Rojas, Sigifredo López, Orlando Beltran Cuellar, Óscar Tulio Lizcano, Luis Eladio Pérez Bonilla, che solidarizzano con l’operato del Comitato della senatrice Piedad Córdoba.
Ovviamente con l’esclusione di madame Betancourt.
 
 
 
 
Qui di seguito la lettera dei Colombiani e Colombiane per la pace al comandante delle FARC-EP  Alfonso Cano del 27 febbraio 2009:
 
Signor Alfonso Cano, Comandante delle FARC-EP
Membri del Segretariato
Montagne della Colombia
 
Vi giunga il nostro saluto di speranza in una pace duratura.
Noi, “Colombiani e Colombiane per la Pace”, reiteriamo la nostra volontá di portare avanti il processo d’interscambio epistolare con le FARC.
 
Riconosciamo la volontá di questa guerriglia, del CICR e del governo del Brasile, cosí come l’accettazione da parte del governo nazionale, affinché la liberazione di quattro membri della forza pubblica e di due dirigenti politici avesse un epilogo felice.
 
Tali liberazioni costituiscono un riferimento positivo per il necessario processo di soluzione negoziata che permetta di porre fine al conflitto sociale ed armato interno, per vie diverse da quelle della guerra. 
 
Come abbiamo fatto sin dall’inizio di questo dialogo epistolare, rifiutiamo e condanniamo le pratiche contrarie ai piú elementari principi umanitari, e confidiamo che gesti come quello delle recenti liberazioni portino in breve tempo ad un riconoscimento esplicito del fatto che la degenerazione del conflitto sta disarticolando politicamente e moralmente la societá colombiana; e che ció sfoci in una franca, decisa e definitiva proscrizione delle pratiche lesive dei valori umanitari piú basilari. Reiteriamo la nostra preoccupazione in merito alla disponibilitá o meno delle FARC di escludere, dal conflitto armato, il sequestro come arma di lotta.
 
Un primo passo in questa direzione é, senza dubbio, l’apertura ad un accordo umanitario, contenuta nei vostri piú recenti comunicati. E’ indispensabile puntualizzare, con urgenza, la cornice all’interno della quale si potrebbe concretizzare un tale accordo, stabilendo le circostanze di tempo, modo e luogo, in modo che noi si possa contribuire alla sua rapida realizzazione. A nostro giudizio, tale meccanismo deve dare inizio alla ricerca di alternative per porre fine al conflitto. Questo accordo, oltre all’interscambio, deve propiziare negoziati politici che portino al conseguimento della pace, come supremo anelito della societá.
 
Ci proponiamo di portare avanti il nostro appoggio all’accordo umanitario, nei termini segnalati, ed alla costruzione di spazi adeguati per rendere effettivo il diritto costituzionale alla pace.
 
Cordialmente,
 
Colombiani e Colombiane per la Pace
 
 

Colombia ed Ecuador sempre più divise da fumigazioni e basi militari

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di Antonio Mazzeo

Da quel maledetto giorno del marzo 2008 in cui l’esercito colombiano bombardò l’accampamento della guerriglia installato in territorio ecuadoriano, assassinando il numero due delle FARC Raul Reyes, i due paesi latinoamericani hanno rotto le loro relazioni diplomatiche. Adesso il governo di Alvaro Uribe dovrà presentarsi di fronte la Corte internazionale di giustizia dell’Aja per rispondere dei “danni incalcolabili” all’ambiente e alla salute delle popolazioni indigene e afrodiscendenti generati dalle incessanti fumigazioni delle coltivazioni di coca alla frontiera con l’Ecuador.

Il ministro degli esteri ecuadoriano, Fander Falconí, ha presentato al massimo organo di giustizia internazionale una memoria di 450 pagine con oltre 2.900 documenti annessi, chiedendo formalmente la cessazione da parte delle forze armate colombiane delle operazioni di dispersione degli erbicidi, più l’imposizione di “indennizzi e riparazioni” a favore delle popolazioni vittime delle fumigazioni. La richiesta, ha spiegato il diplomatico, si basa sull’impatto che, tra il 2000 e il 2007, è stato causato da “micidiali cocktail chimici” su cui la Colombia “non ha voluto fornito precise informazioni”, utilizzati congiuntamente al glifosato, il potente erbicida commercializzato dalla transnazionale “Monsanto” con il nome di “Round-up”. “L’Ecuador ha potuto dimostrare che le aspersioni hanno provocato danni oltre a costituire, per i loro effetti, in territorio ecuadoriano una violazione della sovranità nazionale e dei diritti dei popoli indigeni”, ha aggiunto Fander Falconí.

Diego Cordovez, rappresentante dell’Ecuador presso la Corte Internazionale ed ex segretario generale aggiunto degli Affari Politici delle Nazioni Unite, ha spiegato che le fumigazioni nei dipartimenti meridionali della Colombia hanno pregiudicato in particolare la popolazione indigena degli Awa. “Essi vivono in isolamento volontario, ma l’erbicida causa un problema ambientale molto preoccupante”, ha dichiarato Cordovez. “Chiediamo che si rispetti una striscia di almeno 10 chilometri dalla frontiera con l’Ecuador per evitare ciò che i ricercatori chiamano “l’effetto deriva” delle fumigazioni”.

Come provato da prestigiosi istituti scientifici ed universitari, l’uso sistematico del glifosato è estremamente pericoloso. E la nocività del prodotto “Monsanto” è nota da lungo tempo alle stesse autorità militari colombiane. Nel 1984, in occasione della prima massiccia utilizzazione del glifosato contro le piantagioni di marijuana della regione settentrionale della Sierra Nevada di Santa Marta, per prevenire gravi pregiudizi alle popolazioni indigene, le forze armate colombiane imposero con la violenza l’allontanamento degli abitanti e la loro deportazione in aree distanti dai territori fumigati. Bogotà era entrata in possesso di un documento in cui la società produttrice del “Round-up” ammetteva che “piccole quantità dell’erbicida possono causare danni e distruzione della vegetazione  e della fauna, specie in condizioni climatiche del tutto simili a quelle della Sierra e di buona parte della regione andina”. Nel 1992, l’organizzazione ecologista internazionale Greenpeace presentò un rapporto che rivelava la presenza nel glifosato di “elementi dispersi altamente tossici come la polyoxethylamine (Poea) e la 1,4-dioxane”. Greenpeace denunciò inoltre che il laboratorio a cui il governo degli Stati Uniti aveva affidato la verifica sulla tossicità del glifosato, aveva “alterato l’80% delle 22.000 prove di analisi realizzate”.

Ciononostante, fu deciso di utilizzare “sperimentalmente” il “Round-up” nella jungla meridionale di Panama e, a partire del 1994, contro le coltivazioni di coca dell’area andina della Colombia. Tre anni più tardi, le forze armate colombiane iniziarono le fumigazioni con nuovi e più devastanti erbicidi granulari, come l’Imazapyr e l’Hexaxinona prodotti dalla “Dupont”, che contaminarono suolo e fiumi e causarono danni irreversibili agli occhi, alla pelle e all’apparato respiratorio delle persone che entrano in contatto con essi. Con il Plan Colombia, il programma di aiuti militari per oltre 5,5 miliardi di dollari che Washington implementò a fine anni ’90 per debellare dal continente le ultime organizzazioni guerrigliere, le fumigazioni con contaminanti tossici sono state estese all’intero territorio colombiano e in particolare alla regione amazzonica di frontiera con Ecuador, Perù e Brasile.

È stata la base aeronavale di Manta, in Ecuador, ad avere assunto un ruolo chiave nella cosiddetta “guerra alla droga e al narcotraffico” scatenata dall’amministrazione Bush in America latina. L’uso dell’installazione fu concesso alle forze armate USA il 12 novembre 1999 per un periodo di 10 anni, rinnovabile. Washington assicurò investimenti per oltre 70 milioni di dollari trasformando in breve tempo Manta nel maggiore scalo operativo del continente per i cacciabombardieri, gli aerei cargo C-550, i velivoli cisterna Kc-135 e gli aerei radar Awacs delle forze armate statunitensi. Fu altresì autorizzato dal governo di Quito lo stazionamento nella base di 300 militari e tecnici USA.

Grazie a Manta, gli Stati Uniti si sono garantiti il pieno controllo dello spazio aereo del sud della Colombia e del corridoio oceanico che dall’Ecuador si estende sino a Panama, utilizzato dalle imbarcazioni di fortuna dei migranti latinoamericani che tentano di raggiungere il Messico e la California. Le operazioni di spionaggio ed allerta area condotte dalla base ecuadoriana sono coordinate dal “Joint Interagency Task Force South” di Miami (Florida), un comando speciale che vede la partecipazione dei rappresentanti di otto agenzie delle forze armate e dei servizi segreti USA e di undici paesi stranieri (Argentina, Brasile, Colombia, Ecuador, El Salvador, Francia, Gran Bretagna, Messico, Olanda, Perù, Spagna).

Oggi, Manta rappresenta però un ulteriore elemento di divisione politico-diplomatica tra Ecuador e Colombia ed Ecuador e Stati Uniti d’America. Il governo di Rafael Correa ha deciso di non rinnovare il “contratto” decennale all’uso della base aerea; entro l’11 novembre 2009, gli Stati Uniti saranno costretti a smantellare impianti e sistemi radar e ritirare militari e forze aree. Ripercussioni strategiche per i piani del Pentagono di riposizionamento nel continente latinoamericano? Pochissime, dato che il regime di Alvaro Uribe è venuto prontamente incontro alle esigenze dell’alleato nordamericano, offrendo il territorio nazionale come alternativa a Manta. Il 3 marzo 2009, è stato sottoscritto un accordo (il cui contenuto è ancora segreto) che consentirà alle forze armate statunitensi di accrescere la propria presenza in alcune delle maggiori basi militari colombiane. “Stati Uniti e Colombia stanno operando congiuntamente nella lotta contro il traffico illegale di droga e il crimine internazionale”, ha dichiarato l’ambasciatore USA a Bogotà, William Brownfield. “Parte di questa collaborazione, senza dubbio, richiede l’accesso alle basi militari in entrambi i paesi, cosa che richiede la definizione di un accordo. Tuttavia, un’eventuale base aerea continuerà ad essere sotto il controllo e la giurisdizione colombiana”.

A Bogotà si nega che all’orizzonte ci sia la realizzazione nel paese di una base che possa rassomigliare a quella utilizzata sino ad oggi Manta, con una presenza stabile di personale USA. Il comandante delle forze armate colombiane, generale Freddy Padilla, ha dichiarato che ci si limiterà a concedere a Washington l’uso di “basi militari per permettere agli aerei di rifornirsi di carburante e portare a compimento le loro azioni antidroga”. Versione scarsamente credibile, non fosse altro che questa autorizzazione è in vigore da tempi ormai remoti e riguarda pure la sosta di aerei spia e dei velivoli impegnati nelle fumigazioni di proprietà di società di sicurezza privata USA.

Nonostante siano ormai sotto gli occhi di tutti le devastazioni socio-ambientali causate dal Plan Colombia e il completo fallimento dello strumento militare per impedire la proliferazione delle coltivazioni di coca, la Colombia è stata assunta come esempio di “buone pratiche” da Washington e dall’Agenzia anti-droga delle Nazioni Unite. Alvaro Uribe ha pure risposto positivamente all’ipotesi di inviare personale tecnico-militare colombiano in Afghanistan per addestrare le truppe NATO nella lotta al narcotraffico e contribuire alle operazioni di sminamento della regione. A finanziare la presenza dell’esercito colombiano nel paese asiatico ci penseranno i governi degli Stati Uniti e della Spagna.


Il vero virus messicano : il governo

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Álvaro Uribe e Silvio Berlusconi: il comune sentire di due leader discussi

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di Guido Piccoli
30/04/2009
 
Ai più che sostengono la fesseria che la violenza in Colombia derivi dallo scontro tra «democrazia e terrorismo» o che dipenda dalla droga, il caloroso invito di Berlusconi a Uribe appare normale. Ai molti che conoscono il marciume del regime colombiano appare invece osceno che Berlusconi individui in Uribe un campione di «governabilità sotto la minaccia del terrorismo» e che per giunta lo proponga in questa veste al prossimo G8.
 
In realtà, non c’è molto da sorprendersi. Berlusconi e Uribe hanno parecchio in comune. Sono gli orfani più nostalgici di George W. Bush. Godono di un’alta popolarità, pur gonfiata e ottenuta con mezzi diversi, illeciti o controversi. Autoritari per natura, entrambi — chi più e chi meno — vedono un intralcio nelle regole basilari della democrazia e soprattutto odiano quella parte di magistratura che non sono riusciti ad asservire.
Ma anche l’Italia e la Colombia hanno molto in comune. Ad esempio, una sottomissione agli Usa quasi imbarazzante e poco riscontrabile in altri paesi e poi un’incidenza notevole delle mafie nella società e soprattutto nelle istituzioni.
Da un decennio a questa parte, Italia e Colombia si assomigliano di più. O meglio, è l’Italia ad essersi avvicinata, e molto, alla Colombia e non solo nell’edificazione di un paese ancora più ingiusto. Vari punti del programma dell’attuale governo italiano sembrano la fotocopia di quello che in Colombia è da tempo realtà: ad esempio la privatizzazione del sistema scolastico, la militarizzazione di parti del territorio, l’accanimento contro i più indifesi (qui gli immigrati, là gli indigeni). Persino gli aspetti più inquietanti della realtà colombiana sono, consapevolmente o meno, un modello da seguire. Basti pensare al tentativo di reclutare gli italiani, a partire dai medici, nella guerra ai «clandestini», che ricorda l’istituzione dell’esercito di informantes creato da Uribe in funzione anti-guerriglia.
O, ancora di più, alla sinistra somiglianza tra le ronde cittadine composte dalla presunta gente per bene con le «rondas campesinas» e le cooperative Convivir che, in periodi successivi, rappresentarono il germe del paramilitarismo colombiano, di cui Uribe è stato il vate, l’ideologo, il beneficiario e, fin quando gli è servito e ha potuto, il difensore più estremo. Tante e tali affinità elettive hanno spinto Bogotà a fare dell’Italia il ricettacolo di delinquenti, amici di paramilitari, come l’ex ambasciatore Luis Camilo Osorio o l’ex console a Milano, Jorge Noguera. Alla Farnesina, chiunque fosse il ministro, nessuno ha battuto ciglio alla lettura dei loro curriculum.
 
Sulla corte di Uribe quindi, in patria e fuori, dentro e fuori il parlamento, nelle istituzioni, nei governi locali, nelle caserme, si staglia l’ombra dei paramilitari (che poi, in Colombia, rappresentano anche i moderni narcos). E tutte le indagini, qualunque sia il loro esito, coinvolgono sempre, direttamente o meno, Alvaro Uribe, così come tutte le confessioni fatte dai capi paramilitari. Nell’ultima, l’erede di Pablo Escobar a Medellín, Diego Fernando Murillo Bejarano, detto «don Berna», ha ammesso l’appoggio politico ed economico delle Autodefensas nella campagna presidenziale di Uribe. «Mentono, la loro parola non vale niente, come si fa a credere a dei criminali?» hanno, in ogni occasione, affermato Uribe e i suoi, allo stesso modo come hanno sempre accusato i difensori dei diritti umani, i giornalisti, i sindacalisti e i politici d’opposizione di prestarsi al gioco della guerriglia.
Quando è stato necessario, sono stati utilizzati altri sistemi per tappare le bocche. L’ultimo ad essere ammazzato a Medellín, una settimana fa, è stato Francisco Villalba (un paramilitare ritenuto un maestro nello squartare le vittime), che aveva accusato Uribe e suo fratello Santiago di essere tra i mandanti del massacro di 15 contadini nell’ottobre 1997 a El Aro, nel dipartimento di Antioquia. Benchè fosse stato condannato a 33 anni di carcere, circa un mese fa gli erano stati concessi — stranamente — gli arresti domiciliari per «motivi di salute».
 
Da qualunque prospettiva si guardi la sua presidenza, ad eccezione di quella inspiegabilmente reticente proposta nei suoi tour da Ingrid Betancourt, Uribe appare il leader di una schiera di delinquenti, poco importa se in giacca e cravatta o in tuta mimetica. E’ singolare che a Roma si ritenga che, pur con metodi un po’ sbrigativi, abbia qualcosa da insegnare riguardo alla «governabilità sotto la minaccia del terrorismo». Sarebbe più giusto considerarlo un fallito.
 
Nel 2002 vinse le elezioni col visto di Washington, grazie all’appoggio di tutta l’oligarchia (quella tradizionale e quella parvenù e mafiosa), al terrore delle Autodefensas e proclamando la promessa di sbaragliare in pochi mesi le Farc. Quando si rese conto che non avrebbe potuto mantenerla, fece modificare in maniera fraudolenta la Costituzione per farsi rieleggere ed avere altri quattro anni di tempo. Così come adesso ne sta chiedendo altri quattro. Più che un obiettivo, la sua è un’ossessione ben lontana dall’essere soddisfatta, nonostante i colpi assestati nell’ultimo anno.
La declamata «sicurezza democratica» di Uribe beneficia solo i pochi ricchi che possono più tranquillamente raggiungere le loro ville nei week-end, a discapito della massa dei contadini che continuano a dover fuggire dalle loro casupole visto che, ad esempio, nel 2008 gli sfollati per la violenza sono aumentati del 40% rispetto agli anni precedenti. E, oltre tutto, la presunta «sicurezza democratica» ha costi immensi: non solo perché assorbe quasi un quinto del budget nazionale, ma anche per le perdite in vite umane, dei combattenti di entrambi i fronti, e per la decomposizione morale che, a causa della politica di ricompensa di Uribe, ha trasformato i soldati in spregevoli assassini di migliaia di innocenti.
Ma queste sono news che nei palazzi del potere romano, come nei giornali italiani, non sono mai arrivate.
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Qui l’intervista realizzata da Radio Onda Rossa  a Guido Piccoli il 29 aprile 2009 sul viaggio di Uribe in Italia

L’Italia riceve Uribe, campione di scandali

8 commenti

di Simone Bruno
30/04/2009

E’ arrivato a Roma il presidente della Colombia Alvaro Uribe, pluri-inquisito e semi-sepolto da casi giudiziari, scandali e vergogne assortite, sia colombiane che internazionali. Ma Palazzo Chigi e la Santa Sede oggi si apprestano a incontrarlo con tutti gli onori Paramilitari, corruzione, omicidi: in pochi peggio di lui.

Ma pontefice e premier lo incontrano in pompa magna.
Pochi governi al mondo sono stati travolti da tanti scandali quanto i governi Uribe: il record si riferisce sia al numero che alla loro gravità. Tanti da non ricordarsene. La sua elezione favorita dai paramilitari e la rielezione comprata a suon di regali. Paramilitari ricevuti in segreto nel Palazzo per complottare contro la Corte suprema di giustizia. Metà dei congressisti che l’appoggiano (tra i quali suo cugino) implicati nella parapolitica. Ambasciate usate per evitare la galera ai fedelissimi. Servizi segreti usati per spiare giudici, opposizione e giornalisti. I suoi figli che si arricchiscono grazie ai suoi dipendenti. Il fratello giudice del suo ministro degli interni finito in galera per mafia. Un paio di migliaia di giovani fatti fuori dall’esercito per rimpinguare i numeri della guerra alle guerriglie e farsi pagare la ricompensa, proprio come accadeva nel Far West.

Fujimori, al suo confronto, è un angelico statista illuminato.Pochi governi al mondo sono stati travolti da tanti scandali quanto i governi Uribe: il record si riferisce sia al numero che alla loro gravità. Tanti da non ricordarsene. La sua elezione favorita dai paramilitari e la rielezione comprata a suon di regali. Paramilitari ricevuti in segreto nel Palazzo per complottare contro la Corte suprema di giustizia. Metà dei congressisti che l’appoggiano (tra i quali suo cugino) implicati nella parapolitica. Ambasciate usate per evitare la galera ai fedelissimi. Servizi segreti usati per spiare giudici, opposizione e giornalisti. I suoi figli che si arricchiscono grazie ai suoi dipendenti. Il fratello giudice del suo ministro degli interni finito in galera per mafia. Un paio di migliaia di giovani fatti fuori dall’esercito per rimpinguare i numeri della guerra alle guerriglie e farsi pagare la ricompensa, proprio come accadeva nel Far West. Fujimori, al suo confronto, è un angelico statista illuminato.

Ossessionato dal proposito di sconfiggere la guerriglia, a Uribe tutto sembra lecito. Anche governare con la logica della barricata: «O con me o contro di me, e quindi con le Farc». Da qui il suo gridare contro il nemico, il difendersi attaccando, aumentando sempre la posta in gioco, senza nessuna autocritica come un giocatore di blackjack che, persa la posta, raddoppia la giocata sperando di rifarsi, fino a quando non ha più nulla da scommettere. In questo caso, la sua popolarità, che persino i sempre compiacenti istituti di sondaggio sostengono in calo impressionante.

A livello internazionale va anche peggio. La Corte penale internazionale sta studiando con attenzione il caso colombiano. I giudici Luis Moreno Ocampo e Baltasar Garzón si stanno interessando soprattutto allo scandalo della parapolitica che riguarda soprattutto i legami tra i seguaci di Uribe e i capi delle Autodefensas Unidas. Quello che ha attratto i due importanti giudici non sono tanto le indagini realizzate dalla Corte suprema di giustizia quanto gli attacchi scagliati dal palazzo presidenziale contro i giudici.

Si tratta, tra gli altri, degli scandali noti col nome dei loro protagonisti, «Tasmania» e «Job». Tasmania è un paramilitare che nell’ottobre del 2007 scrisse una lettera a Uribe informandolo che alcuni giudici volevano comprare la sua testimonianza per incastrarlo. Si accese uno scontro devastante tra il potere esecutivo e quello giudiziario: i giornali parlarono di uno «scontro di treni». Nel giugno del 2008 Tasmania ritrattò le accuse, confessando di essere stato imbeccato dal suo avvocato per conto di Santiago e Mario Uribe (oggi in galera per la parapolitica), rispettivamente fratello e cugino del presidente che sostenne che tutto fosse accaduto a sua insaputa. Job invece è il soprannome di un paramilitare che si riunì alcune volte e clandestinamente nei sotterranei del palazzo presidenziale con due alti funzionari presidenziali per complottare contro la Corte suprema (pochi mesi fa Job è stato ucciso da due sicari in moto). Anche in questo casi, secondo Uribe, tutto sarebbe avvenuto a sua insaputa.

I giudici della Corte suprema sono anche tra i principali obiettivi di una serie di intercettazioni illegali realizzate dal Das (Dipartimento administrativo de seguridad), il servizio segreto alle dirette dipendenze del presidente. Il Das spiava un po’ tutti: magistrati incaricati delle indagini sulla parapolitica, politici dell’opposizione, giornalisti dei più importanti mezzi di comunicazione, alti prelati, giudici della corte suprema di giustizia, ong, sindacalisti, generali e anche membri del governo. E lo faceva da sei anni, guarda caso in piena era Uribe.

E, naturalmente, a sua insaputa. Durante la sua presidenza, sono caduti in disgrazia ben quattro direttori del Das, compreso Jorge Noguera accusato, tra le altre cose, di essere il mandante di 24 omicidi e di aver usato l’istituzione per operazioni di riciclaggio di denaro sporco. Prima di tentare di salvarlo, spedendolo al consolato di Milano, Uribe affermò di «mettere la mano sul fuoco» sulla sua innocenza.
Quella delle intercettazioni illegali durante l’era Uribe, è un vizietto anche della polizia. Lo scandalo costò nel 2007 il posto a 11 suoi generali, fatto senza precedenti e, come da copione, finito nel nulla. A dirigere la polizia, è stato richiamato il fido generale Oscar Naranjo, ritiratosi anni fa per l’arresto del fratello in Germania per narcotraffico. Di problemi in famiglia ne ha avuti anche l’attuale ministro degli interni Fabio Valencia Cossio (ed ex ambasciatore a Roma): il fratello Guillermo, giudice a Medellín, è finito in carcere per aver aiutato le strutture mafiose locali.

Tra gli intercettati illustri da parte del Das e della polizia c’erano anche i magistrati della Corte costituzionale, e proprio mentre decidevano la costituzionalità della riforma che avrebbe permesso a Uribe di farsi rieleggere nel 2006. La rielezione ricorda un altro scandalo, quello della «Yidis Politica» dal nome della ex parlamentare Yidis Medina, che raccontò di come il presidente e i suoi consiglieri le avessero promesso benefici economici e politici in cambio del suo voto, risultato poi decisivo per l’approvazione della legge che permise ad Uribe di ricandidarsi. La stessa Medina, sentitasi poi defraudata, uscì allo scoperto, meritandosi un processo e una condanna per essersi fatta corrompere. Mentre i corruttori — secondo la Medina, l’attuale ambasciatore in Italia Sabas Pretelt de La Vega, al tempo ministro degli interni, e Diego Palacio, attuale ministro della protezione sociale — l’hanno finora fatta franca.

Premiare con incarichi diplomatici i servitori fedeli caduti in disgrazia è un’abitudine di Uribe. Oltre al caso di Jorge Noguera spedito a Milano, vanno ricordati i processi contro le ex ambasciatrici in Ecuador e Brasile, contro l’attuale ambasciatore in Messico (ed ex ambasciatore in Italia) Luis Camilo Osorio, considerato l’artefice dell’impunità del paramilitarismo per molti anni, contro Salvador Arana, passato dall’ambasciata cilena alla latitanza con l’accusa di omicidio, contro Juan José Chaux, che ha dovuto rinunciare all’ambasciata nella Repubblica Dominicana perché implicato nello scandalo Job e sostituito dall’ex comandante dell’esercito Mario Montoya, costretto alle dimissioni per lo scandalo dei falsos positivos.

Cioè, per un sistema inventato da Uribe, che fa parte della cosiddetta «seguridad democratica», e che comporta premi per chi uccide i nemici: soldi, licenze e rapide carriere nell’arma per i superiori. Un sistema che parve subito funzionare facendo felici i soldati, il ministro della difesa Santos e il presidente che vantava i risultati ai quattro venti. Peccato che i morti non risultassero banditi o guerriglieri, ma ragazzini attirati con la scusa di un lavoro, portati in regioni di conflitto, vestiti da guerriglieri, uccisi e sepolti come N.N. in fosse comuni.

Quando scoppiò lo scandalo, Uribe sostenne che i giovani ammazzati non fossero innocenti: «Se sono andati da quelle parti non è certo per raccogliere caffè». Poi ammise che qualcosa non funzionava, facendo destituire una ventina di alti ufficiali che finirono alla berlina, ma non in galera. E sostiene ancora adesso, che tutto sarebbe successo «a sua insaputa».

Per finire, l’ultimo scandalo che riguarda Tom & Jerry, Tómas e Jerónimo Uribe, i figli del presidente che, nonostante la giovane età, appaiono degli impresari dal grande fiuto. Peccato che questo dipenda dalla solerzia di alcuni funzionari del governo che li hanno resi milionari dall’oggi al domani, trasformando in zona franca alcuni terreni che i due avevano comprato a prezzi stracciati. Anche in questo caso, il papà si dice ignaro. Ancora una volta, tutto sarebbe successo «a sua insaputa».

Altri articoli sul recente viaggio di Uribe in Italia:

Primo Maggio in Italia: Tutti contro Uribe di Nuova Colombia

Chi è Álvaro Uribe, ospite oggi di Silvio Berlusconi e Joseph Ratzinger di Gennaro Carotenuto

Uribe e dintorni di Stella Spinelli (Peace Reporter)

Uribe  a Roma: protestano i movimenti e le organizzazioni sociali di A Sud

 


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