Rosina Valcárcel: La traccia dell’arcobaleno (a Annalisa Melandri)

2 commenti

Rosina  Valcárcel

Qulche giorno fa, la mia amica Rosina Valcárcel, nota poetessa peruviana, figlia del grandissimo poeta e compagno Gustavo Valcárcel e dell’instancabile militante comunista Violeta Carnero Hoke, mi ha regalato una grande emozione dedicandomi questa poesia.
Non credo di meritare i suoi versi. Quello che so è che  da tempo ci unisce qualcosa di molto forte.  Qualcosa di forte e sottile nello stesso tempo, che viene da un libro di suo padre. Un libro che non so bene, né come, né quando, mi ha scelta…
“Obra poética”, tutta la poesia di Don Gustavo Valcárcel dal 1947 al 1987 . L’edizione che gelosamente conservo da tanti anni è la prima, del 1988. Quasi vent’anni dopo, il destino ha voluto che Ros ed io ci incontrassimo lungo quelle strade alle quali conducono l’amore per l’uomo e per il popolo.
“… vengo dal popolo e vado al popolo, al principio e alla fine del vissuto. Potranno dirmi tutto, meno che non ti ho amato con ogni poro della mia pelle. Potranno rinchiudermi, picchiarmi, distruggermi, ma il giorno dopo la mia polvere e la mia parola staranno ancora combattendo”: questo percorso di vita immaginava Don Gustavo Valcárcel. Questa fu la sua vita. E questa è anche la vita di Rosina, sua figlia.
Grazie Ros.

La traccia dell’arcobaleno
(a Annalisa Melandri)
 
Dietro i guerrieri che fuggono
Restano dolci mani nude
Le tue mani compagna
E il tuo cuore nobile
In cerca dei carnefici e dei ruffiani che ci governano
Perché non sia la vergogna a seppellirci
Vigili
Altere dobbiamo seguire la traccia dell’arcobaleno
Quella dei nostri compagni torturati
Per non essersi allontanati dalla luce viola
Cerchiamo di far tacere il silenzio
Con il tuo scrivere ribelle
E forse in qualche angolo dell’America del Sud
O nel Vecchio Continente
Senza miseria né schifo
Resusciti la speranza e l’allegria
Tra la gente
Raccogliendo l’anelito millenario della terra
Sotto la sinfonia del sole

Rosina Valcárcel Lima 11 ottobre 2008

(traduzione di Annalisa Melandri)


Rosina Valcárcel: La huella del arcoiris (a Annalisa Melandri)

6 commenti

Rosina Valcárcel

Hace unos días,  mi amiga  Rosina Valcárcel, reconocida poeta del Perù, hija del gran poeta y camarada Gustavo Valcárcel y de la incansable militante comunista Violeta Carnero Hoke,  me conmovió dedicándome este poema.
No creo  merecer sus versos. Lo que yo sé  es que algo muy fuerte nos une, desde tiempo. Algo muy fuerte y sutil que pasa a través de un libro de su papá. Un libro qué no se bien ni cómo, ni cuando,  me escogió…  ”Obra poética” , toda la poesía de Don Gustavo Valcárcel desde 1947 hasta 1987. La edición que yo celosamente guardo desde años es la primera de  1988.  Casi veinte años después,  el destino quiso que Ros  y yo non encontráramos en los caminos  en los que nos llevan  el amor por el hombre y el pueblo, por la mujer y el pueblo…
“… vengo del pueblo y voy al pueblo, al principio y al fin de lo vivido. Podrán decirme todo, menos que no te amé con cada poro. Podrán encerrarme, golpearme, destrozarme, pero al día siguiente mi polvo y mi palabra estarán en el combate” : esa trayectoria de vida dibujaba Don Gustavo Valcárcel.  Esa fue su vida. Esa también es ahora  la vida de Rosina, su hija.
Gracias Ros.
La huella del arco iris
(A Annalisa Melandri)

Tras los guerreros que escapan
Quedan dulces manos desnudas
Tus manos camarada
Y tu corazón muy alto
Tras los verdugos y rufianes que nos gobiernan
Que no sea la vergüenza la que nos entierre
Despiertas
Altivas hemos de seguir la huella del arco iris
La de nuestros compañeros torturados
Por no apartarse de la luz violeta
Tratemos de callar al silencio
Con tu escritura alzada
Y acaso en algún rincón de América del Sur
O en el Viejo Continente
Sin miseria sin asco
Resucite la esperanza y la alegría
En medio de la gente
Cosechando el anhelo milenario de la tierra
Bajo la sinfonía del sol.

Lima, 11 octubre 2008.

 

Eric Salerno: Uccideteli tutti

1 commento

 

Se ne parlerà domani a Radio Onda Rossa alle ore 11 con:
Marco Lorenzini — collaboratore rivista Zapruder – Storie in movimento
Gavino Puggioni — esperto di storia orale e scrittura popolare
Salvatore Ricciardi – Radio Onda Rossa
“Il ministro Teruzzi con foglio riservatissimo ha comunicato al generale Bastico che il Duce ha deciso che tutti gli ebrei della Cirenaica siano riuniti in un campo di concentramento della Tripolitania…”. Come spiega la nota dei carabinieri italiani del 28 febbraio 1942 la “soluzione degli ebrei di Tripolitania”, per usare le parole del console tedesco a Tripoli, era stata avviata su diretta iniziativa di Mussolini. In realtà, l’operazione di pulizia era cominciata ben prima, a partire dalla promulgazione delle leggi razziali anticipate dal “Manifesto della razza” del ’38 e che prefiguravano, oltre alle disposizioni per l’Italia, anche le limitazioni da imporre agli ebrei residenti nelle colonie per “..togliere loro le posizioni acquisite in assoluta sproporzione con la loro entità numerica, ponendoli e tenendoli in un piano razziale inferiore”. Gli ebrei di Libia erano diverse migliaia. Solo a Tripoli erano almeno 15mila di cui forse mille di origine italiana. Erano mercanti e imprenditori che figuravano soprattutto nell’élite locale ma non soltanto. Ce n’erano di provenienza italiana, francese, spagnola. Vivevano nelle città ma i più poveri, i “trogloditi della montagna”, campavano d’agricoltura e piccoli commerci in uno stato di palpabile povertà. A sentire il generale Badoglio, che ne scrive nel 1930, gli “israeliti d’Italia son meglio degli israeliti di Tripoli…veri indigeni…(in cui) prevalgono l’egoismo, il disinteresse per gli altri, la pigrizia materiale e morale”. La macchina dell’Olocausto era pronta comunque per tutti loro — ebrei di serie A o di serie B come la gerarchia razzista di Badoglio li aveva catalogati — e gli italiani la misero in moto istituendo un campo di concentramento a Giado, nel Gebel tripolitano, dove nel maggio del ’42 vennero trasferite 2.597 “unità”, come le chiama il linguaggio asettico della burocrazia coloniale.
Oggi Giado è una cittadina della municipalità di Yefren e del campo di concentramento non restano nemmeno più le macerie. Per vedere com’era bisogna ricorrere a Mushi Meghidish, Moshe per gli amici, che in un garage vicino a Tel Aviv l’ha ricostruito in scala sulla base dei suoi ricordi di internato: “ci dissero – ha raccontato a Eric Salerno – che ci avrebbero ucciso tutti. L’ordine era arrivato dall’alto. Da lontano”. Non tutti furono ammazzati ma Salerno, l’autore di “Uccideteli tutti. Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado (Il saggiatore), stima che nel campo morirono circa 600 persone “…uomini, donne, e tanti bambini perché sono i primi a cadere”. Molti altri passarono il mare perché Giado era solo un avamposto nella macchina dello sterminio. Furono trasferiti in Italia e da lì a Bergen-Belsen “una delle anticamere della soluzione finale”.
Il libro di Eric Salerno, che alla Libia aveva già dedicato un bel saggio sul genocidio messo in atto dall’Impero, non riempie solo un vuoto storico della memoria collettiva su un capitolo dell’Olocausto poco indagato. Restituendo dignità agli ebrei di Libia, e per converso a quelli che vivevano nel Magreb, fa giustizia del duplice razzismo che li colpì: come ebrei e poi anche come africani. Uomini appartenenti a un mondo dove noi italiani avevamo portato la fiaccola della civiltà che avrebbe dovuto illuminare il cammino di popolazioni inferiori per carnagione, costumi e tradizioni oltre che per fede. Volutamente dimenticati dall’Italia, paradossalmente gli ebrei di Libia furono in qualche modo dimenticati persino da Israele: discriminati al processo ad Eichmann dove le sollecitazioni degli ebrei di Libia e Tunisia, che vi volevano testimoniare, vennero respinte.
Volutamente dimenticati dall’Italia, paradossalmente gli ebrei di Libia furono in qualche modo dimenticati persino da Israele: discriminati al processo ad Eichmann dove le sollecitazioni degli ebrei di Libia e Tunisia, che vi volevano testimoniare, vennero respinte. In parte questa storia nascosta degli ebrei del Magreb si deve anche a una sorta di loro vergogna o timidezza nel rivelare quel capitolo buio che costò la vita ad almeno mille persone. In parte. Spiega Yacov Haggiag-Liluf, del centro degli ebrei libici a Or Yehuda, cittadina vicina a tel Aviv, che “anche se quanto capitato agli ebrei libici non può essere paragonato all’Olocausto degli ebrei europei per dimensioni” per decenni è stato insegnato che “l’Olocausto era patrimonio degli ebrei europei, soprattutto degli askenaziti”. Fu detto a libici e tunisini – conclude – che non appartenevano a questa storia. Salerno restituisce loro quell’appartenenza.

LA STORIA NASCOSTA DELL’OLOCAUSTO DEGLI EBREI LIBICI 16/3/08

Eric Salerno

Uccideteli tutti

Il saggiatore 2008

pp 239

euro17,00


Mercedes Sosa: honrar la vida

2 commenti

 

Honrar la vida

No…
Permanecer y transcurrir
No es perdurar, no es existir
Ni honrar la vida
Hay tantas maneras de no ser
Tanta conciencia sin saber
Adormecida.

Merecer la vida no es callar ni consentir
Tantas injusticias repetidas
Es una virtud, es dignidad
Y es la actitud de identidad
Mas definida.

Eso de durar y transcurrir
No nos da derecho a presumir
Por que no es lo mismo que vivir
Honrar la vida.

No…
Permanecer y transcurrir
No siempre quiere sugerir
Honrar la vida
Hay tanta pequeña vanidad
En nuestra tonta humanidad
Enceguecida
Merecer la vida es erguirse vertical
Mas alla del mal, de las caidas.

Es igual que darle a la verdad
Y a nuestra propia libertad
La bienvenida.

Eso de durar y transcurrir
No nos da el derecho a presumir
Por que no es lo mismo que vivir
Honrar la vida.
(Eladia Blazquez)


Versos de Gustavo Valcárcel en el parque del Amor, Lima

8 commenti

parque del Amor, Lima

i versi di Gustavo Valcàrcel al parque del Amor, Lima

andremo per porti a vedere che tutto parte 

 e a vedere che il nostro amore non partirà mai…

(da “Canti dell’amore terrestre” n. IX)

 

 HA nacido un poeta al mirarme en tus ojos
y un poema ha nacido al sentirme en tu vida,
porque eres la metáfora de mi niñez humilde
y porque eres la imagen con que soñamos todos.
 
Tu presencia es la vida, un mar inacabable,
estás en todo el mundo, nace el mundo en tus ojos,
te miro sobre el tiempo y te amo bajo el tiempo
porque eres un instante que nunca pasará.
 
Remediará el amor nuestros trajes zurcidos,
habrá pan para ti y flores en la alcoba;
iremos a los puertos a ver que todo parte
y a ver que nuestro amor no partirá jamás.
 
Principio que no acaba, tu mirada me busca
envuelta con la música del mundo que soñamos;
tu voz puebla el espacio donde sembré silencios
y tu nombre me alegra como una flor salvada.
 
Peregrina invisible de los claros de Luna,
has llegado a mi ser como flor a la rama,
entrando de puntillas tan silenciosamente
que al cerrar yo mis ojos te quesdaste cautiva.
 
Sí, yo seré el poeta y tú la poesía
desde el momento exacto que termine estos versos,
copiados un domingo al conocer tus ojos,
porque tus ojos son poesía que mira.
 
Y porque son tus ojos poesía mirada.
 
 

 


Lawrence Ferlinghetti: Manifesto populista. Per i poeti, con amore

2 commenti

Poeti, uscite dai vostri studi,
aprite le vostre finestre, aprite le vostre porte,
siete stati ritirati troppo a lungo
nei vostri mondi chiusi.
Scendete, scendete
Dalle vostre Russian Hills e dalle vostre Telegraph Hills,
Dalle vostre Beacon Hills e dalle vostre Chapel Hills,
dalle vostre Brooklyn Heights e dai Montparnasse,
giù dalle vostre basse colline e dalle montagne,
fuori dalle vostre tende e dai vostri palazzi.
Gli alberi stanno ancora cadendo
E non andremo più nei boschi.
Non è il momento ora di sedersi tra loro
quando l’uomo incendia la propria casa
per arrostire il maiale.
Non si canta più Hare Krishna mentre Roma brucia.
San Francisco sta bruciando
La Mosca di Majakowskij sta bruciando
I combustibili fossili della vita.
La notte & il cavallo si avvicinano
Mangiando luce, calore & forza
E le nuvole hanno i calzoni.
Non è il momento ora di nascondersi per l’artista
Sopra, oltre, dietro le scene,
indifferente, tagliandosi le unghie,
purificandosi fuori dall’esistenza.
Non è il momento ora per i nostri piccoli giochi letterari
Non è il momento ora per le nostre paranoie & ipocondrie,
non è il momento ora per la paura & il disgusto,
è il momento solo per la luce e per l’amore.
Abbiamo visto le migliori menti della nostra generazione
Distrutte dalla noia ai reading di poesia.
La poesia non è una società segreta,
né un tempio.
Le parole & i canti segreti non servono più.
L’ora di emettere l’OM è passata,
viene l’ora di cantare un lamento funebre,
un momento per cantare un lamento funebre & per gioire
sulla fine in arrivo
della civiltà industriale
che è nociva per la terra & per l’Uomo.
Il momento ora di esporsi
nella completa posizione del loto
con gli occhi bene aperti,
il momento ora di aprire le nostre bocche
in un nuovo discorso aperto,
il momento ora di comunicare con tutti gli esseri coscienti,
tutti voi, “Poeti delle Città”
appesi nei musei, includendo me stesso,
tutti voi poeti del poeta che scrive la poesia
sulla poesia
tutti voi poeti di poesia da laboratorio
nel cuore giungla d’America
tutti voi addomesticati Ezra Pound tutti voi poeti pazzi, sballati, malconci,
tutti voi poeti della Poesia Concreta pre-compressa,
tutti voi poeti cunnilingui,
tutti voi poeti da gabinetto a pagamento che vi lamentate con graffiti,
tutti voi ritmatori da metropolitana che non ritornate mai sulle betulle,
tutti voi padroni delle segherie haiku nelle Siberie d’America,
tutti voi non realisti senza occhi,
tutti voi supersurrealisti autonascosti,
tutti voi visionari da camera da letto,
ed agitprop da gabinetto,
tutti voi poeti alla GrouchoMarxista e Compagni di ozio di classe
che restano inattivi tutto il giorno
e che parlano del lavoro di classe del proletariato,
tutti voi anarchici Cattolici della poesia,
tutti voi Neri Montanari della poesia,
tutti voi Bramini di Boston e bucolici di Bolinas,
tutti voi baby.sitters della poesia,
tutti voi fratelli zen della Poesia,
tutti voi amanti suicidi della poesia,
tutti voi capelluti professori della poesia,
tutti voi critici di poesia
che bevete il sangue dei poeti,
tutti voi Poliziotti della Poesia–
Dove sono i figli di Whitman,
dov’è la grande voce che parla ad alta voce
con un senso di dolcezza & sublimità,
dov’è la nuova grande visione,
la grande visione del mondo,
l’alta canzone profetica
dell’immensa terra
e tutto ciò che canta in essa
e il nostro rapporto con essa–
Poeti, scendete
Nelle strade del mondo ancora una volta
E aprite le menti & gli occhi
Con la vecchia delizia visuale,
schiarite la gola e parlate più forte,
la poesia è morta, lunga vita alla poesia
con occhi terribili e forza di bufalo.
Non aspettate la rivoluzione
o succederà senza di voi.
Smettete di mormorare e parlate ad alta voce
con una nuova poesia guidata
con una nuova comune-sensuale “comprensione-pubblica”
con altri livelli soggettivi
con altri livelli sovversivi,
un diapason nell’orecchio interno
per colpire sotto la superficie.
Del vostro dolce Io che ancora cantate
Ancora esprimete “la parola en-masse”-
Poesia il veicolo comune
per il trasporto pubblico
verso luoghi più alti
di altre ruote che possono portarla.
Poesia che ancora cade dai cieli
dentro le nostre strade ancora aperte.
Loro non hanno ancora alzato barricate,
le strade animate ancora con visi,
uomini &donne attraenti camminano ancora qui,
dovunque ancora attraenti creature,
negli occhi di tutti il segreto di tutti
qui ancora sepolto,
i selvaggi figli di Whitman qui ancora dormono,
si svegliano e camminano nell’aria aperta.
 

Joan Manuel Serrat — Mediterraneo

0 commenti

qualche nostalgia…

Quizá porque mi niñez
sigue jugando en tu playa,
y escondido tras las cañas

duerme mi primer amor,
llevo tu luz y tu olor
por donde quiera que vaya,

y amontonado en tu arena
guardo amor, juegos y penas.
Yo,

que en la piel tengo el sabor
amargo del llanto eterno,
que han vertido en ti cien pueblos

de Algeciras a Estambul,
para que pintes de azul
sus largas noches de invierno.

A fuerza de desventuras,
tu alma es profunda y oscura.

A tus atardeceres rojos
se acostumbraron mis ojos
como el recodo al camino…

Soy cantor, soy embustero,
me gusta el juego y el vino,
Tengo alma de marinero…

¿Qué le voy a hacer, si yo
nací en el Mediterráneo?

Y te acercas, y te vas
después de besar mi aldea.
Jugando con la marea

te vas, pensando en volver.
Eres como una mujer
perfumadita de brea

que se añora y que se quiere
que se conoce y se teme.

Ay…

si un día para mi mal
viene a buscarme la parca.
Empujad al mar mi barca

con un levante otoñal
y dejad que el temporal
desguace sus alas blancas.

Y a mí enterradme sin duelo
entre la playa y el cielo…

En la ladera de un monte,
más alto que el horizonte.
Quiero tener buena vista.

Mi cuerpo será camino,
le daré verde a los pinos
y amarillo a la genista…

Cerca del mar. Porque yo
nací en el Mediterráneo…


Io l’infame di Bolzaneto…ho visto…

6 commenti

Io, l'infame di Bolzaneto

Ho visto… tratto da La Repubblica del 18 marzo 2008 da un articolo di Giuseppe D’Avanzo:
Ho visto picchiare con violenza e ripetutamente i detenuti presenti con schiaffi, pugni, calci, testate contro il muro. Picchiava la polizia di stato ma soprattutto il “gruppo operativo mobile” e il “nucleo traduzioni” della polizia penitenziaria. Ho visto trascinare un detenuto in bagno, da tre o quattro agenti della “penitenziaria”. Gli dicevano: “Devi pisciare vero?” Una volta arrivati nell’androne del bagno, ho sentito che lo sottoponevano a un vero e proprio linciaggio.…Ho visto il medico vestito con tuta mimetica, anfibi, maglietta blu con stampato sopra il distintivo degli agenti della polizia penitenziaria, togliere un piercing dal naso di una ragazza che era in qiuel momento sottoposta a visita medica e intanto le diceva: “sei una brigatista?”
“Non ho la fortuna di credere in Dio, ho la fortuna di credere in questa cosa, nella giustizia…”

Con la prefazione di Giuliano Giuliani e la postfazione dell’avvocato Giuliano Pisapia.
La biografia di Marco Poggi, l’infermiere che ha sollevato il caso delle violenze alla caserma Bolzaneto durante il G8 di Genova, nel luglio 2001. Marco Poggi racconta i giorni trascorsi nella caserma, ciò che ha visto e ciò che ha fatto. Parla poi delle conseguenze della sua testominianza, del prezzo di una scelta che gli era semnbrata normale, ma che gli ha cambiato la vita.
Nel testo, anche i ricordi della sua esperienza come infermiere nei manicomi e tanti aneddoti della sua infanzia e della sua giovinezza, per capire come e perché è nata in lui l’esigenza di raccontare la verità.

sfoglia alcune pagine del libro.…


“Colombia, laboratorio de embrujos. Democracia y terrorismo de Estado”, de Hernando Calvo Ospina

2 commenti

La violencia en Colombia, consecuencia de la intransigencia política del Estado y de las enormes desigualdades sociales, es investigada en la presente obra a través de múltiples documentos y enmarcada en una historia que se remonta al siglo XIX.

Se suceden los acontecimientos más determinantes en los que la voraz oligarquía nacional, Estados Unidos y ciertas potencias europeas, han intentado subyugar a un pueblo con el objetivo de apoderarse de sus inmensas riquezas naturales. Sin embargo, un importante sector de sus gentes ha reaccionado adoptando las más diversas formas de lucha y convirtiendo la violencia en una especialización, en un pretexto.

Si en un pasado fueron las tropas oficiales las que arrasaban y sembraban la barbarie, ahora son los paramilitares, hijos de aquéllas. El poder y la economía del narcotráfico, sombra del presente, convive en matrimonio permanente con un Estado que dice combatirlo. Como asegura el ex funcionario del Departamento de Estado e investigador William Blum, «el libro describe perfectamente la complicidad de Washington en la utilización del terrorismo y el tráfico de drogas para que el gobierno colombiano lleve la verdadera guerra: combatir el ‘comunismo’».

Indice del libro:

Prólogo de Ignacio Ramonet
Introducción
I. Los inicios de un mal camino
II. Los «nuevos tiempos»
III Las sombras de la violencia
IV. La «paz» de las armas
V. Guerra, guerrillas y «seguridad nacional»
VI. La «guerra sucia»
VII. «Narcos», «Paras» Y Uniformados
VIII. Muerte y tierra arrasada
IX. En cumplimiento del «servicio» militar
X. Las alianzas de lucifer
XI. Las nuevas vías y el mismo fin
XII. Letra con sangre
XIII. Tras el telón, la muerte
XIV. Las fauces del engendro: el Plan Colombia
XV. Vida y rejuegos del Plan Colombia
XVI. Retrato del presidente
XVII. Asesinos, terroristas y traficantes
XVIII. Heridas profundas

“Colombia, laboratorio de embrujos Democracia y terrorismo de Estado”. Hernando Calvo Ospina. Akal-Foca. Madrid 2008. http://www.akal.com/

Fuente: Rebelión


Rayen Kvyeh : Balla la morte

0 commenti

Rayen Kvyeh

Rayen Kvyeh il 25 gennaio presso lo Spazio Odradek

Questa poesia di Rayen Kvyeh, tradotta dal Prof. Antonio Melis, è stata letta in Italia in occasione de La parola errante, recital e conferenza stampa sulla situazione dei prigionieri politici mapuche, che si è svolto  a Roma presso lo Spazio Odradek il 25 gennaio scorso.
In Cile è stata assunta come inno e canto di lotta del popolo mapuche.
 
BALLA LA MORTE
Balla la morte
sulla tavola
dei potenti commensali.
Applaudono e tacciono,
tacciono e applaudono
sotto l’ombra complice
delle leggi bianche.
 
Si rompe il silenzio
sulle sbarre-muri.
Lo sciopero della fame
cavalca per le vene
dei prigionieri politici mapuche.
Sulle trecce nere
di Patricia Troncoso
si arrampica il silenzio
delle voci ancestrali.
 
Balla la morte
sugli alberi di natale
di neve artificiale
e luci colorate.
 
Si rompe il silenzio.
Lo sciopero della fame
cavalca i sentieri
solidali
attraversando frontiere
rompendo barriere.
 
Ruggisce il Llaima.
Rompe il silenzio.
Vomita fuoco.
Il rosso ruggito
della lava ardente
travolge le montagne.
 
Balla la morte
sulla bilancia della giustizia
dei potenti commensali.
Ballano le leggi.
Anno nuovo.
Nuove armi.
Mano dura – mano bianca.
Terrorista – mente bianca.
Moneta dura – plusvalore bianco.
Balla la morte.
Ballano le leggi.
con champagne e vino.
 
Si rompe il silenzio.
Lo sciopero della fame
cavalca i sentieri usurpati
del territorio mapuche.
 
Balla la morte
sulla scrivania
dei potenti commensali.
Ballano le armi.
La pallottola assassina
punta alla schiena.
Matías Catrileo assassinato.
 
Balla la morte
sulla tavola
dei potenti commensali.
I terroristi ballano
la cueca finale.
Ballano le leggi
cantando l’inno nazionale.
 
IL CASO È CHIUSO
 
Sulle trecce nere
di Patricia Troncoso
si arrampica il silenzio
delle voci ancestrali.
Rompono il silenzio
le voci dei venti.
Lemun, Catrileo, Epul
insorgono
nelle quattro forze della terra.
 
Matías Catrileo cade
baciando la terra.
Le voci dei venti
rompono il silenzio.
I suoi occhi si chiudono
illuminando
i sentieri ampi e stretti
della NAZIONE MAPUCHE.
Le voci ancestrali
rompono il silenzio.
Matías Catrileo cammina
per le quattro forze della terra.
(Traduzione di Antonio Melis)
 
 


Pagina 9 di 13« Prima...7891011...Ultima »