Lettera aperta al Venezuela di Bolívar

0 commenti
Narciso Isa Conde

 

Lettera aperta al Venezuela di Bolívar

di Narciso Isa Conde

 

Stimati/e compagni/e  e connazionali della nostra America:

Ci sono forti segnali   che indicano come il   governo bolivariano del Venezuela sia caduto nella trappola della collaborazione con quello della  Colombia, rispetto  alla  criminalizzazione di quanti/e si battono e solidarizzano con la lotta per la  libertà, per la pace con dignità e per l’emancipazione  di questo paese fraterno, flagellato da oltre cinquanta anni da una guerra sporca messa a punto  dal potere con il patrocinio USA. In questo contesto “penalizzante” sono stato preso di mira  dalla perversa alleanza tra la Colombia  e gli Stati Uniti.

L’ ostilità del regime colombiano è stata sistematica da un certo periodo di tempo a questa parte e proprio  rispetto a questo fatto,  alcuni mesi fa una fonte affidabile mi ha dato informazioni avvisandomi del rischio di viaggiare all’ estero attraverso o verso paesi che non offrivano garanzie di rifiuto alle pretese della Colombia e degli Stati Uniti  di detenermi  per processarmi o uccidermi, a seconda dei casi.   Qualcosa di simile si tramava – e si trama contro altri compagni.

Nello specifico, in vista del fatto che queste intenzioni erano sempre più accertate,   mi si raccomandò che evitassi tutti gli scali intermedi nei miei viaggi in Venezuela e che adottassi tutte le precauzioni necessarie, perfino quella di usare  voli diretti per raggiungere questo paese amico, dando per scontati i vincoli di solidarietà e le identità  rivoluzionarie esistenti tra il nostro Movimento Caamañista e le forze  che governano il Venezuela.

Auto-limitazioni

Fui profondamente grato verso quel gesto e consolidai  il mio impegno rispetto a tutto ciò   con l’appoggio  dei miei compagni/e di lotta:

·            Rinunciando  a un viaggio a El Salvador dopo essere stato invitato nel  gennaio scorso all’ iniziativa di  omaggio al comandante Schafik Handal, indimenticabile amico e compagno.

·            Non partecipando quest’ anno al seminario internazionale  Los partidos politicos y Una Nueva Sociedad” realizzato lo scorso mese di marzo in Messico con il patrocinio del Partido del                        Trabajo (PT) di questo paese.

·            Scusandomi con i compagni del partito Primera Linea” della Galizia che recentemente mi avevano invitato alle loro Giornate Indipendentiste.

In sintesi: in questo primo quadrimestre del corrente anno  mi sono limitato a un viaggio con volo diretto  a  Caracas alla fine di marzo per partecipare a  due attività: il seminario Solo Marx” organizzato dall’  alcaldia di Girardot-Maracay e dal Frente Alfredo Maneiro)  e l’ Omaggio  a Manuel Marulanda (patrocinato dal Capitolo Venezuelano del Movimento Continentale Bolivariano — MC della cui Presidenza Collettiva sono coordinatore).

Questo viaggio si é realizzato senza grandi  problemi anche se  ci sono stati  alcuni segnali che non facevano sperare nelle garanzie convenute, cosa che mi ha obbligato a prendere  precauzioni aggiuntive e cercare  appoggi complementari.

Nuovi rischi

Trascorse  alcune settimane ci troviamo di fronte alla drammatica  cattura avvenuta all’ aeroporto di Maiquetía-Caracas e alla immediata  estradizione  in Colombia del compagno Joaquín Pérez Becerra, direttore dell’  agenzia di stampa Anncol, membro della Asociación  Bolivariana de  Comunicadores (ABC) nazionalizzato in Svezia e perseguitato con lʹaccusa di “terrorismo”, azione repressiva montata sulla base di accuse false e pregiudizi simili a quelli che ha utilizzato contro di me ed altri dirigenti rivoluzionari della nostra America e del mondo, il regime narco paramilitare terrorista della Colombia, sponsorizzato dalla CIA e dal MOSSAD. Tutto ciò   di concerto con il governo venezuelano per iniziativa del presidente colombiano Manuel Santos.

L’ associazione tra le alte gerarchie militari e civili dei governi del Venezuela e della Colombia per organizzare  questo fatto vergognoso  non ha bisogno di ulteriori prove. Ambedue le parti hanno ammesso la collaborazione, incluso i presidenti dei rispettivi paesi.

E non si tratta di un fatto isolato. Sicuramente si inserisce  all’ interno  di accordi di maggior portata e profondità in materia di sicurezza  intergovernativa, come si evidenzia  dalle dichiarazioni recentemente offerte dal ministro della Difesa della Colombia, Rodrigo Rivera (APORREA 1-05-2011), il quale riferendosi alla cattura ed all’ estradizione di Joaquín ha precisato che “il governo del Venezuela, in un tema coordinato direttamente con il presidente Chávez, ci ha risposto inviandolo in Colombia. E ci hanno detto che rispetto a qualsiasi informazione come questa che gli abbiamo dato, risponderanno nello stesso modo”.

Quanto affermato da parte della Colombia  fino ad oggi non è stato smentito e a ciò si è aggiunto l’annuncio  enfatico che il regime colombiano rifiuta la negoziazione politica  del conflitto armato e che attualmente persegue  la sconfitta militare dell’ insorgenza, cercando l’appoggio  internazionale per isolare e colpire le organizzazioni politico militari. Tutto questo nel contesto dell’abbandono,  di fatto, da parte del Venezuela, della neutralità e della sua adesione alla persecuzione degli/delle stigmatizzati/e come “terroristi/e”.

D’ altra parte ho ricevuto informazioni molto serie che rivelano la determinazione di dare continuità a questa collaborazione tra la Colombia e il Venezuela e mi mettono in guardia sulle conseguenze repressive che potrebbero darsi se in simili circostanze decidessi di andare in Venezuela.

Prima di ricevere questa informazione  da fonte assolutamente di fiducia, accompagnata dalla raccomandazione di non recarmi in Venezuela, non sono state poche le preoccupazioni e gli inviti alla prudenza che, solo per  intuizione, mi hanno rivolto amici/che di qua e di là.

Ironia della storia?

Sembra una vicenda – ma non lo è — di fiction storica. In realtà possiede un toccante  senso ironico rispetto allo sviluppo dei processi di ispirazione  rivoluzionaria.

Tutto sembra indicare che la piazza libera bolivariana, il Venezuela di Chávez, tristemente e in modo assurdo, stia diventando ogni volta sempre più ostile verso settori coerenti e impegnati con la difesa dei principi di questo processo; cioè contro una parte dei suoi migliori sostenitori e sostenitrici dentro e fuori allo stesso processo.

Stante le cose in questo modo la principale oasi dell’ unità  bolivariana presenta alcuni segnali di cedimento, manifestati  nella negazione di abbracci solidali e da  congiure utilitaristiche ingiustificabili a favore dei protagonisti dello stato terrorista colombiano, accettati ora incoerentemente come alleati occasionali nonostante siano nemici accaniti.

Vincolato storicamente come lo sono, — insieme a molti altri compagni/e -  al processo di speranza iniziato da Chávez e dal MBR-200 nello stesso istante in cui un divino “golpista” (allora stigmatizzato ferocemente dagli stessi che adesso ci criminalizzano e perseguitano) pronunciò a frase “por ahora”, questa situazione mi sembra veramente paradossale.

Prove di arretramenti e  incoerenze rischiose nell’ accidentato divenire della rivoluzione. Ironia della storia!

Dilemma e attesa

Nel mio caso, data la situazione difficile da digerire, sono costretto nell’  immediato a restare confinato nella mia “patria chica”  (dove il costo politico di estradarmi  e/o assassinarmi é immenso e i mezzi di difesa superiori) o assumere — se fosse necessario e se fossi motivato  a farlo -  l’ alto  rischio che vorrebbe dire viaggiare in Venezuela in queste circostanze onorando impegni latinoamericanisti o partecipando a eventi organizzati da forze e associazioni  che apprezzano il mio apporto,  soprattutto se il presidente Chávez  e il suo governo definitivamente non offrono garanzie inequivocabili che non avverranno più situazioni  come quella del compagno Joaquín Pérez.

Il dilemma  é forte anche se non imminente.

A mio avviso é possibile e necessario aspettare lo sviluppo dei fatti scatenati da  questa aggressione inqualificabile, che mira ad essere diretta  contro tutti i criminalizzati  dal DAS, dalla CIA e dall’ assassino Santos. Già  in precedenza guerriglieri delle FARC e dell’ ELN e militanti della sinistra basca sono stati  vittime di tale politica.

Sono stato invitato a partecipare a  vari eventI  che saranno realizzati in Venezuela alla fine di maggio e al principio di giugno dell’ anno in corso.

Valuterò bene l’evolvere  di questa grave situazione e la reazione del governo bolivariano rispetto al mio caso e a quello di altri compagni  per agire di conseguenza.

Cercherò di difendere con coraggio   i miei diritti e le mie relazioni storiche con la rivoluzione venezuelana, evitando di diventare inutilmente  vittima dell’ imposizione  delle “ragioni di questi Stati”  o un pezzo sacrificale nello  scacchiere della mal chiamata “politica reale”. Lo farò in tutti  i casi simili.

Misurerò  bene i miei passi rifugiandomi soprattutto nella ragione della politica rivoluzionaria di fronte agli illegittimi   interessi di stati  e di governi.

Non mi sottrarrò  ai rischi che l’interesse generale del movimento e le mie intime  convinzioni mi reclameranno come necessari. Non l’ ho  mai fatto.

Sicuramente la fiducia si è incrinata  non per decisione personale ma a causa di ingratitudini e incoerenze di alcuni protagonisti di un processo trasformatore che abbiamo difeso e continueremo a  difendere con integrità e coraggio, ma senza canonicità, senza incondizionalità e senza lodi.

Coloro i quali la hanno infranta  sono chiamati a ristabilirla, modificando percorsi e attitudini con l’ internazionalismo coerente, principi  validi ed etica rivoluzionaria.

Attenderemo senza fretta  i segnali del processo e della vita per prendere altre decisioni più precise.

Credo che agendo in questo modo  non solo sto interpretando  il mio sentire e le mie convinzioni ma anche quelle  di tutti/e coloro che sono  ingiustamente penalizzati/e da questa scoria che governa in Colombia e negli Stati Uniti.

Siamo militanti  di largo  respiro, combattenti  per la vita, ostinati nell’idea che la giustizia dovrà farsi strada contro venti e maree, contro calunnie, stigmatizzazioni  e  sopraffazioni.

Crediamo sia dignitoso ribellarsi in casi come questo e rispetto ad ogni violazione dei diritti, abuso di potere o accordo indegno anche se commesso da guide meritevoli e leader stimati.

La nostra ribellione questa volta ha una grande carica di tristezza, anche se non tanta da annullare la nostra continua lotta per l’allegria.

E’ triste pensare al  Venezuela bolivariano  come  “terra proibita”.

Molto triste, però – insisto – questa tristezza non ha il potere di chiudere la strada alla nostra lotta per la felicità, il benessere comune e la bellezza umana. Faccio fatica a credere che questi nobili propositi non saranno raggiungibili da questo popolo valoroso e dai suoi fratelli solidali  nel mondo, come anche le rettifiche che aprono subito spazio al dialogo, alla fiducia e all’armonia; senza deporre identità e senza sacrificare la diversità che arricchisce la vita.

Bolívar vive!

Caamaño vive!

Narciso Isa Conde

Coordinatore del Movimento Caamañista (MC) e della Presidenza Collettiva del Movimento Continentale Bolivariano (MCB)

9 maggio 2011 Santo Domingo, RD.

 

 

Traduzione di Annalisa Melandri

 

 


Chávez sbanda pericolosamente, tradisce il popolo colombiano e pugnala alle spalle i bolivariani

2 commenti

Fonte: Associazione Nazionale Nuova Colombia

Piovono pietre su Chávez da ogni angolo del Venezuela e da diversi continenti e trincee di resistenza, e se le merita tutte.
Quelle dei settori democratici, bolivariani e rivoluzionari colombiani, traditi da un ex-bolivariano che ha indossato in tempi record le vesti pestilenti di Santander (colui che tradì il progetto del Libertador di costruzione della Patria Grande latinoamericana), e umiliati nel più profondo della loro memoria storica (la consegna del giornalista Joaquín Becerra, superstite del massacro dell’Unión Patriótica per mano dell’oligarchia di cui il presidente venezuelano è diventato ‘compagno di merende’, è un affronto imperdonabile). Quelle di moltissimi soggetti della sinistra e delle forze antimperialiste latinoamericane, europee, australiane e via dicendo, che vedevano in Chávez un bastione di resistenza, denuncia e coerenza contro l’imperialismo nord-atlantico, e che di colpo si rendono conto che questa percezione va rivista e necessariamente messa in discussione.
E quelle di gran parte del movimento bolivariano venezuelano, dalle organizzazioni popolari dei quartieri storici di Caracas come il ‘23 de Enero’ al Partito Comunista, passando per le associazioni di artisti ed intellettuali, contadini e lavoratori, sindacati e collettivi.
Qualcuno, al netto di una candida ingenuità o di una scarsa informazione, potrebbe interpretare la codarda consegna allo Stato paramilitare colombiano del direttore di ANNCOL come un fulmine a ciel sereno. Tuttavia, questa vergognosa vicenda non può essere compresa appieno se non all’interno di un processo degenerativo che la “Rivoluzione bolivariana” e le “sinistre progressiste” latinoamericane sperimentano e retroalimentano da tempi non sospetti.
In Venezuela, come lucidamente registra il dirigente rivoluzionario dominicano Narciso Isa Conde, la nuova borghesia nata dalle ceneri (che sembrano ancora brace incandescente) della IV Repubblica ed arricchitasi grazie ad un’economia dopata dal petrolio (leggasi PDVSA), e la burocrazia d’apparato che fagocita i segmenti chiave dell’amministrazione pubblica e del governo, hanno preso le redini del processo; due forze poderose e cancerogene, che fomentano la corruzione, riproducono gli schemi e gli antivalori dei malgoverni precedenti, fanno della retorica “partecipativa” e “bolivariana” il cavallo di battaglia delle loro arringhe per poi smentirsi nella pratica, scoraggiano e deludono le masse popolari ed incarnano la più pericolosa minaccia nei confronti del processo rivoluzionario stesso.
E’ sufficiente analizzare la composizione dell’esecutivo, il passato e il presente di una gran parte dei ministri di Chávez (a cominciare da quello delle Comunicazioni, Andrés Izarra) e la progressiva estromissione dalle cariche di maggior peso di quei compagni (come ad esempio Eduardo Samán) che non hanno accettato di essere cooptati, comprati o silenziati dalla nomenclatura di Miraflores.
Ma potremmo andare oltre: il Partito Socialista Unito del Venezuela, PSUV, che annovera tra i suoi più importati dirigenti alcuni personaggi di dubbia moralità come il parlamentare Diosdado Cabello, è diventato terreno di conquista per opportunisti e politicanti vecchi e nuovi che si riciclano manipolando le basi; e le Forze Armate e di Polizia, in cui abbondano generali ed ufficiali di vario rango che mal sopportano le lotte quotidiane di lavoratori e contadini per i loro diritti e per la radicalizzazione del processo bolivariano, pur chiamandosi “bolivariane” continuano ad essere permeate da delinquenti e anticomunisti.
In sintesi, un conglomerato di interessi ed ambizioni di potere che, se da una parte s’azzuffa con la vecchia oligarchia della IV Repubblica, dall’altra fa di tutto per impedire lo smantellamento dello Stato borghese nonostante i proclami infarciti di “Socialismo del secolo XXI” e di “Integrazionismo latinoamericano”.

LA “NUOVA” POLITICA INTERNAZIONALE DEL VENEZUELA

La consegna di Joaquín Pérez Becerra al fascista Santos è la diretta conseguenza di una politica internazionale sbiadita e sciagurata, fatta di concessioni e concezioni distorte in cui le “ragioni di Stato” sono il perno e l’internazionalismo rivoluzionario è una scomoda variabile (dipendente dalle prime) ormai superata.
Molti, in Venezuela e nel mondo, hanno avvertito un campanello d’allarme quando rifugiati baschi prima, e guerriglieri delle FARC e dell’ELN più recentemente, sono stati deportati rispettivamente in Spagna e in Colombia. Allorché Chávez ha iniziato a tessere le lodi del guerrafondaio Santos, definendolo “il mio miglior amico”, ed al ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due paesi hanno fatto seguito accordi non solo in materia economica, commerciale e di infrastrutture ma anche di “sicurezza”, la preoccupazione è diventata una triste costatazione. Ne è la riprova il recente sdoganamento santista-chavista del dittatore honduregno Lobo (capo di un governo illegittimo che altro non è che l’estensione politico-temporale del golpe griffato Obama-Micheletti), che verrà reintegrato nell’Organizzazione degli Stati Americani e che riceverà nuovamente gli agognati barili di petrolio di PetroCaribe, con cui potrà rimpinguare i serbatoi dei blindati che reprimono il popolo di Morazán. Sdoganamento, cui si unito in seconda battuta l’inadeguato e velleitario Zelaya, presentato dal governo venezuelano come una vittoria della diplomazia di Miraflores, che esibisce promesse melliflue –da parte dei golpisti honduregni– di clemenza nei confronti di una resistenza honduregna sulla cui testa si sta cucinando la riabilitazione del regime sanguinario di Tegucigalpa. In sostanza, dovremmo credere alle promesse di un branco di lupi mannari che “s’impegnano” a non sbranare gli agnelli, certamente eroici ma pur sempre inermi.
Infine, ma non in ordine d’importanza, non possiamo ignorare un altro, squallido tassello del mosaico: il caso Walid Makled. Narcotrafficante ed affarista venezuelano di origine siriana arrestato nell’estate 2010 in Colombia, ha dichiarato di avere in suo possesso registrazioni audio-video compromettenti che dimostrerebbero il coinvolgimento di alti funzionari venezuelani in attività illecite e torbide. Indipendentemente dalla fondatezza o meno di queste accuse, strumentalizzate puntualmente dagli USA, una cosa è certa: il governo Chávez ha fatto e sta facendo di tutto affinché la Colombia lo estradi in Venezuela (che lo accusa di omicidio) e non negli Stati Uniti (che lo accusano di narcotraffico). E’ ineludibile domandarsi perché Chávez si premuri tanto di mettere le mani su Makled, la cui estradizione Santos si è impegnato a concretizzare a breve termine (come gaiamente annunciato dal ministro degli Esteri venezuelano Maduro poche ore dopo che Joaquín Pérez veniva sbattuto nel carcere Modelo di Bogotá), e non faccia altrettanto per ottenere l’estradizione, sempre dalla Colombia dove vive come un eroe, di un certo Carmona Estanga, presidente de facto dei golpisti nell’aprile 2002.


LE INCONGRUENZE DI CHÁVEZ

Facciamo un passo indietro. Fino all’insediamento di Santos, uno dei principali autori intellettuali del bombardamento criminale in territorio ecuadoregno del 1 marzo 2008 e massimo responsabile –unitamente ad Uribe– del terrorismo di Stato in Colombia negli ultimi anni, Chávez si era speso in prima persona nel denunciare il ruolo del regime colombiano quale gigantesca base militare statunitense in America Latina, minaccia all’integrazione continentale ed erede del traditore Santander. Il tutto, con un discorso incendiario antioligarchico e proclami d’irriducibilità antimperialista che hanno suscitato l’ammirazione e l’approvazione di milioni di persone nel mondo intero.
In meno di un anno, lo stesso regime paramilitare colombiano è diventato un “affidabile partner per l’integrazione” (con cui il Venezuela, tra le altre cose, condivide la presidenza di Unasur); il nemico Santos è diventato il “miglior amico”, e l’insorgenza colombiana un branco di “terroristi”, di cui Chávez non rivendica più il riconoscimento di forza belligerante (“Le FARC e l’ELN non sono terroriste, sono veri eserciti e bisogna dargli un riconoscimento”, disse Chávez nel gennaio 2008 di fronte all’Assemblea Nazionale, aggiungendo: “Sono forze insorgenti che hanno un progetto politico e bolivariano che qui rispettiamo!”)
Sempre nel giro di pochi mesi, quello che prima era un governo illegittimo e golpista (ci riferiamo a Lobo) è diventato un valido interlocutore con cui pianificare mosse politiche e nuovi affari, in cambio di briciole ancora saldamente nel paniere dell’oligarchia honduregna.
Lo stesso Chávez che non ha mai risparmiato parole di adorazione nei confronti del Libertador Simón Bolívar, elogiandone la coerenza, la tenacia e l’irriducibile volontà di sconfiggere il colonialismo e le oligarchie complici, oggi getta con un calcione i rivoluzionari colombiani in pasto a squali e coccodrilli narcoparamilitari. Pugnala alle spalle non solo guerriglieri che hanno impugnato le armi perché in Colombia l’opposizione legale è stata e continua ad essere sterminata senza soluzione di continuità, ma anche un giornalista come Joaquín Pérez Becerra che guerrigliero non è.
E lo consegna in meno di quarantotto ore dal suo arresto avvenuto all’aeroporto di Maiquetía violandone i più elementari diritti, essendo Joaquín cittadino svedese (naturalizzato da almeno un decennio dopo aver ottenuto lo status di rifugiato in Svezia in qualità di superstite del genocidio dell’Unión Patriótica). Joaquín non ha subito un’estradizione in piena regola, per rendere esecutiva la quale si sarebbe dovuto pronunciare un tribunale venezuelano; e non gli hanno permesso di parlare con i suoi avvocati né ricevere la visita del console svedese a Caracas, mantenendolo in stato di totale isolamento e, come denunciato dallo stesso Joaquín dal carcere Modelo di Bogotá, è stato trattato come una merda dalla Guardia Nazionale venezuelana e dal ministro Izarra. E su di lui non pendeva, come invece trasmesso da Santos a Chávez nella telefonata tra amici in cui il primo ha chiesto al secondo il favore personale di “recapitarglielo” con ogni mezzo, un mandato di cattura internazionale dell’Interpol, che altrimenti sarebbe stata effettuata in Svezia (dove Joaquín viveva da anni) o nel vigilantissimo aeroporto di Francoforte, dove il direttore di ANNCOL si è imbarcato con destinazione Caracas.
Quando un gruppo di ciarlatani norvegesi ha assegnato il ridicolo Premio Nobel per la Pace al guerrafondaio Obama, ci siamo identificati con la critica di Chávez che faceva rilevare come ci fosse un’insostenibile contraddizione in termini. Oggi, registriamo la stessa, indifendibile incongruenza se pensiamo che il presidente venezuelano, fresco vincitore del “Premio Rodolfo Walsh” (giornalista argentino assassinato dalla dittatura di Videla), ha trattato come un delinquente ed una volgare merce di scambio un giornalista che ha patito sulla propria pelle le sevizie di un’altra dittatura, quella degli oligarchi colombiani, le cui mani sporche di sangue non potranno mai ripulire né il teatrino parapolitico neo-granadino né le elezioni farsa di turno.
Sempre recentemente, Chávez ha criticato la corruzione e i vecchi vizi ancora fortemente presenti all’interno del suo partito, il PSUV, ed in altri ambiti della politica nazionale; per essere coerente con questa ineccepibile disamina, Chávez dovrebbe depurare una gran parte delle istanze dirigenti, a partire dall’esecutivo che presiede ed in particolar modo dal ministro delle Comunicazioni e dell’Informazione, Andrés Izarra. Questo “bolivariano” da operetta, già giornalista della CNN e della NBC negli anni ’90, ha prima annunciato sul suo blog l’arresto di Joaquín come se si trattasse di una grande vittoria delle autorità venezuelane, per poi imporre a tutti i giornalisti dei media ufficiali il silenzio circa la nazionalità svedese di Joaquín, il suo carattere di giornalista rivoluzionario solidale col Venezuela e, naturalmente, le violazioni ai suoi diritti fondamentali. Grazie a questo traditore i media governativi venezuelani, che dovrebbero informare con principi e paradigmi diametralmente opposti a quelli dei media borghesi internazionali, hanno fatto una pessima figura, per nulla mitigata da una o due eccezioni coraggiose (Vladimir Acosta su RNV e il gagliardo Walter Martínez del programma Dossier). Mentre si consumava lo scempio ai danni di Joaquín, non trovava niente di meglio da fare che lodare “gli sforzi di Santos per far fronte alle alluvioni” che stanno martoriando tre milioni di colombiani, per lo più abbandonati alla loro sorte dal nuovo “miglior amico” di Chávez.
Un altro ministro campione di “bolivarismo”, il cancelliere Nicolás Maduro, ha giocato un ruolo rilevante in tutta questa vicenda, e con il tempo potremo scoprire ulteriori dettagli. Per il momento, ci “deliziamo” con le sue recentissime dichiarazioni rilasciate alla stampa in occasione dell’incontro dei ministri dell’Ambiente del Vertice degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi, Celac: “Il rispetto del Venezuela al Diritto Internazionale è indiscutibile, non ci sottomettiamo al ricatto di nessuno, da qualunque parte provenga, perché stiamo agendo in modo trasparente e in sintonia con la Legge e con le responsabilità che ha lo Stato venezuelano”.
Questo burocrate che veste camicia e basco rossi, rosso di fuori e marcio dentro come talune mele bacate, ha avuto anche la sfacciataggine di rimproverare la Svezia (che ha legittimamente e dovutamente chiesto spiegazioni alla cancelleria di Caracas per questa consegna di un suo cittadino senza il benché minimo rispetto dei passaggi legali e dei diritti sanciti dalla Costituzione Bolivariana medesima), domandandosi perché le autorità scandinave avessero permesso a Joaquín Pérez di uscire dal territorio svedese. La risposta la conosciamo tutti, compreso il signor Maduro: Joaquín è cittadino svedese, gode dello status di rifugiato e dei protocolli internazionali che ne riconoscono le relative garanzie, e aveva tutto il diritto di muoversi liberamente. Maduro fa orecchie da mercante, e chiosa con una dichiarazione che ci fa sorridere: “Noi continueremo a lavorare per un mondo di uguali, opponendoci alle guerre e costruendo l’integrazione dell’America Latina”. Sappiamo bene che per i tecno-burocrati come i menzionati ministri ci sono “uguali” più uguali di altri, la guerra a morte dell’oligarchia colombiana contro il popolo non è poi così importante, e la “integrazione” dell’America Latina è fatta soprattutto di megaprogetti, polidotti ed accordi politici con qualunque governo e stato, anche se terrorista e genocida come quello colombiano.
Ad ogni modo, se qualcuno nutrisse ancora dei dubbi circa la buona o mala fede del presidente venezuelano, il campo è stato definitivamente sgomberato dalle sue recentissime dichiarazioni. Infatti, incalzato da più parti si è visto obbligato a pronunciarsi, uscendo dall’autismo in cui era piombato e proferendo parole scandalose ed infantili: “La responsabilità non è mia, il primo responsabile è quel signore (Joaquín) che viene qua sapendo che l’Interpol lo sta ricercando con codice rosso”, aggiungendo che “Qualcuno dovrebbe dire chi lo ha invitato a venire qua, chi gli ha organizzato la trappola, come tutti sapevano…”; rivolgendosi poi a non si sa bene chi, anche se intuiamo che il riferimento sia a tutti quelli che hanno protestato per la vergognosa consegna di Joaquín a Santos, ha la sfrontatezza di dire: “Infiltrati, sono movimenti infiltrati sino al midollo”.
Ammesso e non concesso che Chávez abbia elementi per affermare una cosa così grave, dovrebbe essere esplicito e dire chi sarebbe infiltrato da chi, presentando elementi probatori. Il Movimento Continentale Bolivariano? Il Partito Comunista del Venezuela? I collettivi e comitati autogestiti del 23 de enero? O forse le migliaia e migliaia di persone, giornalisti, lavoratori, giovani, donne ed indigeni che in questi anni hanno interloquito con ANNCOL e che stimano Joaquín Pérez in virtù del tenace lavoro di denuncia e sostegno alle lotte dei popoli del mondo, a partire dalla resistenza colombiana e dal processo bolivariano in Venezuela?
Non soddisfatto, il primo inquilino di Miraflores è caduto nel grottesco con un’altra, infamante dichiarazione: “Così come abbiamo consegnato Chávez Abarca al governo di Cuba, abbiamo consegnato Pérez Becerra al governo della Colombia!” A chi non fosse informato, ricordiamo che Francisco Chávez Abarca è un terrorista anticastrista, già mano destra di Posada Carriles ed autore di diversi attentati terroristici ai danni di vari hotel e centri turistici cubani. Bel paragone Chávez, complimenti! Mettere sullo stesso piano un criminale prezzolato dalla CIA ed un superstite del peggior genocidio politico nella storia dell’America Latina, ci fa capire di che pasta tu sia fatto…
Chávez si è ulteriormente contraddetto quando ha rincarato la dose di ipocrisia: “Io non sto dicendo che lui sia un terrorista, spero che il governo della Colombia rispetti i suoi diritti umani e il diritto alla difesa”. Perché il mandatario di Miraflores non ha rispettato i diritti umani ed il diritto alla difesa di Joaquín? Perché, nel comunicato diffuso subito dopo l’arresto di Joaquín all’aeroporto di Caracas, si afferma che “il Governo Bolivariano ratifica in questo modo il suo impegno irriducibile nella lotta contro il terrorismo…”? E perché insiste sulla questione del mandato di cattura dell’Interpol ai danni di Joaquín, e non esige una spiegazione all’Interpol stessa che ha unilateralmente depennato, dalle sue liste di persone ricercate, diversi banchieri venezuelani scappati all’estero dopo aver speculato ed affamato il suo popolo per anni?
Infine, l’atteggiamento arrogante ed autoreferenziale del presidente venezuelano si è manifestato con un’ultima “chicca”: “Io prendo le decisioni e mi assumo le mie responsabilità, nessuno può venire qui a ricattarmi, né l’estrema sinistra né l’estrema destra!”
A parte il fatto che, alla luce dell’evoluzione del caso del mafioso Walid Makled, ci pare di poter confermare che l’estrema destra colombiana sta ricattando, eccome, il governo venezuelano, è del tutto sconsiderato bollare come “ricattatori di estrema sinistra” un pezzo importante del movimento bolivariano venezuelano e latinoamericano, nonché intellettuali del calibro di Adolfo Pérez Esquivel, James Petras, Hernando Calvo Ospina, Michel Collon, Carlos Aznares, François Houtart, Carlos Lozano, Jorge Beinstein e Juan Carlos Vallejo (tanto per citare solo alcuni dei firmatari di una lettera internazionale a Chávez di critica e invito alla rettifica).
Inoltre, non capiamo in quale dimensione spazio-temporale si trovi il vicepresidente venezuelano Elías Jauja, che dopo la consegna di Joaquín ha avuto l’ardire di ribadire la “solidarietà del Venezuela con i movimenti rivoluzionari internazionali”, come se non fosse successo niente. Se il governo venezuelano manda al macello un giornalista bolivariano, figuriamoci cosa dovrebbero aspettarsi i militanti dei movimenti rivoluzionari internazionali… Probabilmente, di essere ingabbiati anch’essi al loro arrivo a Caracas per una qualche “ragion di Stato”!

RIPERCUSSIONI E CONSEGUENZE

Alcuni adoratori/adulatori acritici del presidente e dei vertici venezuelani, dopo il primo smarrimento dovuto al carattere indifendibile dell’infame consegna di Joaquín alla Colombia, hanno dato fondo alla propria materia grigia (piuttosto amorfa, a dire il vero) per cercare di giustificare l’irresponsabile decisione di Chávez: “non si poteva fare altrimenti”, “se non l’avessimo consegnato gli Stati Uniti ci avrebbero invasi”, “se l’Interpol lo chiedeva, bisognava darlo alla Colombia”, “Chávez starà soffrendo molto per questa dolorosa decisione che salverà la Rivoluzione”, e via dicendo. Squallidi ed imborghesiti “intellettuali” da salotto, dediti ad arrampicarsi sugli specchi come scarafaggi. Altri ancora, emuli delle destre più becere e in perfetto stile inquisitorio, si sono spinti ben oltre: “Pérez Becerra doveva starsene buono in Svezia”, “Chi gli ha detto di venire qui a crearci problemi?”, “Qualcuno deve averlo pagato e manipolato per venire qui a creare uno scandalo internazionale e provocarci”… Sono frasi, titoli e concetti che si commentano da soli. E che sulla rete e negli ambiti in cui si discute accesamente dell’accaduto sono stati e continuano ad essere nettamente minoritari.
Decine di migliaia di messaggi, sms, mail, articoli, commenti nei blog, denuncie, appelli e adesioni sono circolati negli ultimi giorni sulla rete e nelle piazze, e molti altri sono in arrivo. Tutti, indipendentemente dalla calibratura più diplomatica o “incazzata” dei contenuti, hanno un minimo comun denominatore: le massime autorità hanno fatto un gesto grave, la consegna di Joaquín ad un regime sanguinario è sbagliata e Chávez (a cui piace esser chiamato “Comandante”) deve assumersene la responsabilità. A maggior ragione nella misura in cui, come le sopracitate dichiarazioni del cancelliere Maduro confermano, si tratta di una politica di Stato.
La consegna del direttore di ANNCOL è un grave errore etico, e lo abbiamo abbondantemente argomentato in questo articolo e negli altri comunicati e news diffusi. Violando principi elementari di solidarietà e internazionalismo, da parte di chi si dice “rivoluzionario”, inocula un virus devastante nel processo che rafforza il pragmatismo borghese e pregiudica irrimediabilmente la credibilità di chi ne è portatore. Inoltre, ricalca per modalità e complicità il famigerato Plan Condor, con cui negli anni ’70 del secolo scorso le dittature latinoamericane perseguitavano e mandavano al massacro militanti rivoluzionari.
E’ un miope errore politico, perché come ha detto la sinistra rivoluzionaria venezuelana, “la fiducia è fratturata”. Fatto grave, questo, se si pensa che anche Chávez ed il Psuv si erano finalmente resi conto che senza l’importantissimo contributo dei settori che la compongono, la difesa e lo sviluppo del processo (in chiave elezioni 2012, ma non solo) sarebbero molto più ardui. A ciò aggiungiamo che la consegna di Joaquín a Santos avalla un castello accusatorio complessivo le cui “prove” provengono dalla stessa lampada di Aladino (i presunti computers di Raúl Reyes) con cui hanno criminalizzato e criminalizzeranno ancora, tra gli altri, anche il presidente venezuelano.
Ed è un colossale errore strategico, a cui Chávez ed i suoi comprimari arrivano dopo un’elaborazione analitica che ricorda molto quella di Gheddafi alla fine degli anni ’90: collaborare col nemico, stringere forti alleanze col gran capitale e coi regimi reazionari e voltare le spalle ai rivoluzionari di altri paesi, come quelli colombiani, è il frutto della pia illusione che così facendo si neutralizzerà la controrivoluzione (interna ed esterna), e si toglieranno pretesti all’imperialismo.  Tuttavia, la prima lavora a pieno regime, infischiandosene delle sempre più soventi concessioni di Chávez, ed il secondo, come insegna la storia, non ha bisogno di pretesti, se li fabbrica ad hoc per aggredire paesi e stati non più funzionali alle sue proiezioni geopolitiche, economiche e militari.
In un sol colpo, Chávez ha perso la fiducia della sinistra rivoluzionaria, in Venezuela e nel mondo, e non ha certo scalato il ranking delle preferenze della destra (quella colombiana in primis), che ha manovrato abilmente per indebolirlo adesso, sfruttandone allegramente l’inconsistenza ideologica e l’incoerenza, per poi sferrare il colpo finale quando l’imperialismo avrà deciso di mettere le mani definitivamente sul petrolio venezuelano.
Nel frattempo, migliaia di persone in tutto il mondo, siano essi giornalisti alternativi, militanti bolivariani, intellettuali critici o semplici lavoratori e studenti, colombiani e non, continueranno a lavorare in sostegno alla lotta per la liberazione dal giogo dello sfruttamento e del neo-colonialismo che eroicamente conduce, sui più diversi terreni, il popolo colombiano. Non dobbiamo lasciarlo solo, così come vorrebbero gli opportunisti che lavorano per “cambiare tutto” affinché non cambi niente. E non dobbiamo lasciare soli i rivoluzionari venezuelani, chiamati in questo momento storico ad intensificare la lotta di classe e di resistenza per sconfiggere l’oligarchia pro-imperialista da una parte, e la destra endogena (travestita da bolivariana) che fagocita i gangli del potere dall’altra.
E, naturalmente, dobbiamo sostenere e accompagnare Joaquín Pérez Becerra, la cui vita è in pericolo in un vigliacco carcere di Bogotá che l’oligarchia ha nottetempo dato in comodato d’uso al paramilitarismo, e i 7500 prigionieri politici colombiani rinchiusi nelle peggiori condizioni per il solo fatto di essere oppositori di un regime antidemocratico e antipopolare. Lo stesso con cui adesso va a braccetto il presidente Chávez, che è corresponsabile di ciò che potrebbe capitare al direttore di ANNCOL.

Associazione nazionale Nuova Colombia

 


Pacto cumplido?

0 commenti

Extraditado a Venezuela el narcotraficante Mackled con todas las garantias.

Joaquín Becerra ha sido deportado ilegalmente y entregado en las manos de sus verdugos colombianos como en los años oscuros del Plan Condor.

 


Llega marcha por la paz a la Ciudad de México

0 commenti

Luego de dos días de camino y en medio de aplausos y felicitaciones la Marcha por la paz con justicia y dignidad llegó a la zona urbana del DF.

Hasta la madre

MÉXICO, DF., 7 de mayo (Proceso).- Hemos llegado a pie, como lo hicieron los antiguos mexicanos, hasta este sitio en donde ellos por vez primera contemplaron el lago, el águila, la serpiente, el nopal y la piedra, ese emblema que fundó a la nación y que ha acompañado a los pueblos de México a lo largo de los siglos. Hemos llegado hasta esta esquina donde alguna vez habitó Tenochtitlan –a esta esquina donde el Estado y la Iglesia se asientan sobre los basamentos de un pasado rico en enseñanzas y donde los caminos se encuentran y se bifurcan–; hemos llegado aquí para volver a hacer visibles las raíces de nuestra nación, para que su desnudez, que acompañan la desnudez de la palabra, que es el silencio, y la dolorosa desnudez de nuestros muertos, nos ayuden a alumbrar el camino.

Si hemos caminado y hemos llegado así, en silencio, es porque nuestro dolor es tan grande y tan profundo, y el horror del que proviene tan inmenso, que ya no tienen palabras con qué decirse. Es también porque a través de ese silencio nos decimos, y les decimos a quienes tienen la responsabilidad de la seguridad de este país, que no queremos un muerto más a causa de esta confusión creciente que sólo busca asfixiarnos, como asfixiaron el aliento y la vida de mi hijo Juan Francisco, de Luis Antonio, de Julio César, de Gabo, de María del Socorro, del comandante Jaime y de tantos miles de hombres, mujeres, niños y ancianos asesinados con un desprecio y una vileza que pertenecen a mundos que no son ni serán nunca los nuestros; estamos aquí para decirnos y decirles que este dolor del alma en los cuerpos no lo convertiremos en odio ni en más violencia, sino en una palanca que nos ayude a restaurar el amor, la paz, la justicia, la dignidad y la balbuciente democracia que estamos perdiendo; para decirnos y decirles que aún creemos que es posible que la nación vuelva a renacer y a salir de sus ruinas, para mostrarles a los señores de la muerte que estamos de pie y que no cejaremos de defender la vida de todos los hijos y las hijas de este país, que aún creemos que es posible rescatar y reconstruir el tejido social de nuestros pueblos, barrios y ciudades.

Si no hacemos esto solamente podremos heredar a nuestros muchachos, a nuestras muchachas y a nuestros niños una casa llena de desamparo, de temor, de indolencia, de cinismo, de brutalidad y engaño, donde reinan los señores de la muerte, de la ambición, del poder desmedido y de la complacencia y la complicidad con el crimen.

Todos los días escuchamos historias terribles que nos hieren y nos hacen preguntarnos: ¿Cuándo y en dónde perdimos nuestra dignidad? Los claroscuros se entremezclan a lo largo del tiempo para advertirnos que esta casa donde habita el horror no es la de nuestros padres, pero sí lo es; no es el México de nuestros maestros, pero sí lo es; no es el de aquellos que ofrecieron lo mejor de sus vidas para construir un país más justo y democrático, pero sí lo es; esta casa donde habita el horror no es el México de Salvador Nava, de Heberto Castillo, de Manuel Clouthier, de los hombres y mujeres de las montañas del sur –de esos pueblos mayas que engarzan su palabra a la nación– y de tantos otros que nos han recordado la dignidad, pero sí lo es; no es el de los hombres y mujeres que cada amanecer se levantan para ir a trabajar y con honestidad sostenerse y sostener a sus familias, pero sí lo es; no es el de los poetas, de los músicos, de los pintores, de los bailarines, de todos los artistas que nos revelan el corazón del ser humano y nos conmueven y nos unen, pero sí lo es. Nuestro México, nuestra casa, está rodeada de grandezas, pero también de grietas y de abismos que al expandirse por descuido, complacencia y complicidad nos han conducido a esta espantosa desolación.

Extracto del discurso que Javier Sicilia leerá este domingo en el Zócalo y que se publica íntegro en la edición 1801 de la revista Proceso, ya en circulación.

 


Padre Andrés Tamayo: un sacerdote sulle barricate

0 commenti


Un sacerdote sulle barricate

Di:  Geraldina Colotti

Fonte: il manifesto

Leader ambientalista e portavoce del «Fronte di resistenza popolare al colpo di stato» del 2009, Teologo della liberazione, il religioso salvadoregno ha messo la sua vita al servizio degli ultimi.

L’Honduras è piccolo, ma è un paradiso su cui le multinazionali hanno allungato le mani facendo grandi profitti senza  dare nulla alle popolazioni locali. L’Italia lo conosce solo per “L’Isola dei famosi”, ma gira la testa di fronte alle violazioni dei diritti umani perpetrati da un golpista di origine bergamasca come Micheletti e alle responsabilità di un magnate dei media comeRafael Ferrari». Non usa mezzi termini padre Andrés Tamayo, quando si tratta di  difendere gli ultimi: in questo caso quell’oltre 63% di honduregni che, nel paese  centroamericano grande come un terzo dell’Italia, vive sotto la soglia di povertà. «Ho scelto di abbracciare la causa del popolo — dice al manifesto -, con mezzi pacifici ma senza risparmio». Al punto di diventare un dirigente del Frente di resistencia popular in Honduras: «Mi occupo – spiega – del settore Orientamento, di far crescere la coscienza nella base». Il Vangelo di Tamayo è quello della Teologia della Liberazione. Nato in Salvador, è stato chierichetto di Oscar Romero, l’arcivescovo di San Salvador, ucciso il 24 Marzo 1980 da un sicario del governo mentre celebrava la messa. Una fine a cui è scampato di misura anche lui, sopravvissuto in Honduras a cinque attentati. Quattro dei suoi più stretti collaboratori sono stati uccisi da sicari mai identificati. Gli ultimi due tentativi di eliminarlo si sono verificati dopo il colpo di stato del  28 giugno 2009, che ha costretto all’esilio il presidente Manuel Zelaya. Da allora, Tamayo è obbligato a nascondersi: «Sono stato espulso – precisa — dal paese e da quella Chiesa che non ha alzato la voce insieme al popolo, ma a favore del potere; che ha chiuso i suoi spazi alla protesta e, a differenza della chiesa di base, ha perso l’opportunità di agire da profeta del futuro: e non ha più fra la popolazione che lotta per una causa giusta». In quanto leader del Movimento ambientalista dell’Olancho (Mao), nel 2004 Tamayo ha ricevuto il prestigioso Goldman Prize, il Nobel alternativo per l’ambiente. In questi giorni, è in Italia per un giro di conferenze, ospite del centro Balducci di Zugliano (Udine) e dei missionari comboniani e ha parlato con il manifesto della situazione in Honduras e del suo impegno per la giustizia sociale.

Un sacerdote in politica e con un ruolo preminente. Com’è cominciata?

Ho sempre avuto un’inclinazione sociale per la giustizia e per il bene comune della popolazione e sempre in questa chiave ho inteso il processo pastorale. Negli anni ’90, quand’ero parroco nel municipio di Salamà ho partecipato ai movimenti per la difesa della foresta, contro lo sfruttamento selvaggio delle miniere d’oro, che inquinano i corsi d’acqua, e per il governo delle risorse naturali. L’Honduras è sempre stato depredato delle sue risorse, soprattutto del  legname. Nel 2000 ci siamo resi conto che, in dieci anni, il paese aveva già perso più del 10% delle proprie foreste. Gran parte del legname veniva tagliato illegalmente, venduto soprattutto negli Stati uniti e in Europa: un volume d’affari che avrebbe consentito alla popolazione di  vivere in modo dignitoso, invece vedevamo gli alberi scomparire, la pioggia diminuire, le falde acquifere inaridirsi, i contadini impoveriti spinti alla deforestazione selvaggia. Quattro multinazionali — una delle quali, la Sansoni, è italiana mentre la più importante è  cubanoamericana, la Aljoma Lumber — si sono impadronite di queste risorse, hanno il monopolio dell’esportazione. Nella parte nordorientale del paese, dove si trova l’Olancho, il  dipartimento più grande, riserve della biosfera come quella del Rio Platano sono state devastate. Nel 2000, la popolazione ha cominciato a protestare, a chiedere una moratoria al taglio del legname. Nel 2002, ho partecipato a uno sciopero della fame di 30 giorni, e si è messo in moto il processo che ha portato a due marce per la vita: la prima, nel 2003, di 190 km, e quella del 2004 a cui hanno partecipato oltre 50.000 persone provenienti da tutto il paese. Cercavamo di ottenere un tavolo di trattativa, ma il colpo di stato contro il presidente Manuel Zelaya, il 28 giugno 2009, ha chiuso ogni via d’uscita. Anche allora mi sono messo a fianco del popolo, per infondere coraggio a chi manifestava per i propri diritti. L’attuale governo di Porfirio Lobo è lì per garantire mano libera allo sfruttamento delle risorse da parte delle grandi famiglie e delle multinazionali che controllano l’80% della ricchezza. Ogni cinque minuti si distrugge un ettaro di bosco.

Gli indigeni garifuna, gli afro-discendenti che vivono lungo la costa Atlantica e che sono i più colpiti dalla devastazione di propri territori, a febbraio hanno organizzato l’Asamblea Constituente de los pueblos indiegenas y negros de Honduras e il 1 di aprile hanno dato vita a una marcia contro la repressione. Qual è il loro peso politico nel movimento di resistenza?

Molto forte. I garifunas vivono in Honduras da oltre 200 anni. I loro territori sono quasi un paradiso e per questo gli indigeni vengono deportati. Il pretesto è il turismo. A Roatan, dove si sta girando il reality «L’isola dei famosi», vi sono villaggi turistici e commerci gestiti da grandi imprese occidentali, che cercano di corromperli offrendo loro briciole. Gli afrodiscendenti, però, si sono organizzati e partecipano con le loro rappresentanze al Frente. In molti hanno pagato con la vita. Anche se l’elezione di Porfirio Lobo è stata una farsa a cui oltre il 65% dei cittadini non ha partecipato, in questo momento il potere ha in mano tutte le leve, chiunque cerca di opporsi viene  ssassinato. La Cia, insieme all’esercito colombiano e ai servizi segreti israeliani, addestra imilitari agli assassinii mirati degli oppositori, e poi fa credere che si tratti di delitti comuni. Il governo ha cercato di sbiancare il colpo di stato con una Commissione di verità costituita unilateralmente, mentre noi chiediamo che ne venga formata una vera per far luce sugli omicidi di maestre, giornalisti, sindacalisti… Le organizzazioni indigene e ambientaliste continuano a presidiare le sorgenti, organizzano momenti di resistenza contro la deforestazione, sperando in un cambiamento politico e nel ritorno alla democrazia.

Su cosa si basa questa speranza?

Il Frente di resistencia popular è una forza alternativa a cui partecipano gruppi di donne — che sono molto importanti-, organizzazioni contadine, intellettuali, indigeni. È nato dopo il colpo di stato del 28 giugno 2009 e si è rafforzato nel corso di quasi due anni in termini di rappresentanza e credibilità: in difesa della libertà del popolo e per la costruzione di un vero cambiamento sociale e politico in Honduras. I nostri principali obiettivi sono quattro: il ritorno in sicurezza di tutti gli esiliati come me, a partire dal presidente Manuel Zelaya,  oordinatore del Frente. Il rispetto dei diritti umani e la punizione dei golpisti. La realizzazione di un’Assemblea nazionale costituente, partecipativa, inclusiva e democratica. Il   riconoscimento del Frente come organizzazione politica e sociale belligerante in Honduras: una vera organizzazione politica, indipendente ed estesa su scala nazionale qual è, e non un’organizzazione di quartiere come vorrebbe far credere il governo Lobo. Per questo, contiamo sulle nostre forze ma anche sulla mediazione internazionale intrapresa dal presidente venezuelano Hugo Chavez e da quei paesi dell’America latina i quali, all’interno dell’Alba o di Unasur, sostengono un cambiamento progressista dell’Honduras.

Uno dei principali mediatori è Manuel Santos, il presidente della Colombia, un paese non proprio campione dei diritti umani.

Anche se la politica dei governi non sempre parla la lingua del popolo (che esprime forte e chiaro i propri obiettivi), per noi questa mediazione costituisce un passo avanti. Prima eravamo costretti a cercare un dialogo impari e senza giustizia con un potere che ha tutto il potere, ora invece ci sarà qualcuno che potrà sostenere la nostra proposta in quattro punti. L’ostacolo più serio, però, è la pressione della destra Usa perché l’Honduras entri nell’Osa, in modo che i finanziamenti internazionali possano finire nelle solite tasche. Comunque vadano le cose, però, è nostra ferma intenzione procedere all’autoconvocazione dell’Assemblea costituente che porterà a una nuova costituzione a cui il popolo ha diritto: entro il 28 giugno, a due anni dal colpo di stato

 


Polizia di Stato:Commissariato di Polizia di Milano-Porta Venezia, in via Cadamosto. Dal crocifisso alla croce celtica?

0 commenti


Comunicato dell’ ABC contro la censura all’ informazione alternativa in Venezuela

5 commenti

Comunicato dell’  ABC contro la censura all’ informazione alternativa in Venezuela

Asociación Bolivariana de Comunicadores, ABC

Tutti i fatti relativi all’arresto e alla deportazione del giornalista bolivariano Joaquín Pérez Becerra sono stati caratterizzati da una censura alla libertà di informazione:

Prima, la stessa detenzione di Pérez,  la voce dissidente del governo colombiano più riconosciuta e letta non solo in quel paese; la pagina di ANNCOL riusciva, come  nessun altro mezzo alternativo in Colombia, a raggiungere le 800mila visite in alcuni momenti di particolare congiuntura politica, cosa che in Colombia avviene costantemente.

Successivamente, un’ora dopo la detenzione di Joaquín, veniva diffuso  un comunicato ufficiale,  che con il linguaggio caratteristico della destra,  indicava  le ragioni dell’arresto, dettate non  dall’ INTERPOL ma dall’ex consigliere di  Álvaro Uribe Vélez, José Obdulio Gaviria, un oscuro personaggio noto per i suoi vincoli con il narcotraffico e il  paramilitarismo in Colombia.

Poi, il 25 aprile, la convocazione da parte del MINCI ai  mezzi di informazione per  una conferenza stampa all’aeroporto di Maiquetía rispetto a una probabile  consegna del compagno, infine  la successiva e quasi immediata cancellazione dell’invito con la motivazione di una momentanea sospensione di tutto il processo in corso.

Per finire,  una trasmissione a reti unificate del governo, passata  nello stesso momento in cui stavano trasferendo Becerra in Colombia.

Inoltre, il Ministero dell’  Informazione e della Comunicazione del Venezuela (MINCI), nella persona del ministro Andrés Izarra, dà disposizione  a tutti i mezzi di comunicazione  che dirige,  di non coprire  nessun avvenimento  relativo alla  solidarietà a  Joaquín Pérez Becerra e alle   proteste di un ampio settore del popolo rivoluzionario del Venezuela per la deportazione, per le nuove  condizioni della relazione Colombia – Venezuela e per gli  accordi di ambedue i governi in materia di “sicurezza” e cooperazione militare.

E’ deplorevole il ruolo che hanno giocato i mezzi di informazione che, come la VTV e Telesur, si sono distinti per la loro assenza nei luoghi cruciali dove si è manifestata la risposta della sinistra rispetto al caso di Joaquín Pérez. I loro racconti si  sono limitati ai comunicati di  governo e alle  accuse della Colombia  sui presunti crimini commessi dal direttore di ANNCOL.

Sono venuti meno alla verità e soprattutto all’impegno di trasformare il Venezuela nello spazio di costruzione di una stampa impegnata con gli interessi  delle masse popolari, con la  rottura del pensiero unico e con l’ egemonia mediatica capitalista che ha contribuito a consolidare questo feroce sistema.  Telesur  e altri mezzi di informazione sono venuti meno al principio socialista di costruire una comunicazione per la liberazione.

Attraverso questo comunicato rispondiamo anche a Iván Maiza che nell’unico articolo di opinione pubblicato da TeleSUR, in cui, più o meno assicura che il comunicatore bolivariano si è andato a cercare il suo arresto (come le donne che usano la minigonna sono colpevoli delle violenze che subiscono – nostro commento).

Dice Maiza che il movimento di sinistra è probabilmente infiltrato da “alcuni compagni” o da qualche “partito rivoluzionario” che hanno fatto dei piani per sabotare le strategie pianificate dal Comandante. Anche costruendo  trappole ai danni dei compagni di lotta? Compagni che non accettando la decisione di avvicinarsi a Santos sono disposti a fare qualsiasi cosa che possa “minare la fiducia” tra Chávez e il suo popolo, tra Chávez e i “popoli del continente”.

No, signor Maiza e signori di TeleSUR, noi  direttori dei mezzi di informazione alternativi che abbiamo invitato in qualche occasione  Joaquín Pérez Becerra per consolidare un progetto di comunicazione bolivariana, né  lavoriamo né tanto meno facciamo accordi  diplomatici con il DAS.

Noi abbiamo invitato in Venezuela in diverse occasioni Joaquín perché  eravamo assolutamente sicuri che il nostro governo non avrebbe mai deportato  al governo fascista colombiano un militante impegnato con la verità, con gli ideali bolivariani, un militante che ha sempre difeso in  Europa  questo processo che rappresenta la speranza dell’America latina.

Chi avrebbe mai  immaginato che una deportazione così vile e lontana dal diritto (perfino quello borghese),  sarebbe stata possibile nel paese con il maggior numero di emittenti comunitarie dell’America latina, il paese nel quel si sono svolti tanti incontri, congressi e dibattiti sul ruolo dei mezzi di informazione nella costruzione della Nostra America; l’unico paese dell’America latina dove c’è un processo rivoluzionario che dice di essere socialista; il paese del premio  Rodolfo Walsh alla comunicazione popolare.

Proprio nel corso dell’incontro della fondazione della Asociación Bolivariana de Comunicadores (ABC) che realizzammo nel dicembre del 2008 e nella  quale partecipò  anche Joaquín Pérez, decidemmo in sede plenaria che la sede della ABC sarebbe stata a Caracas per essere stata questa città la culla del nostro libertador Simón Bolívar e il luogo più sicuro  contro la censura, le persecuzioni e la diffamazione della destra.

Scegliemmo Caracas perchè consideravamo che il Venezuela avesse bisogno di una Associazione che smontasse le calunnie della stampa borghese e del suo Colegio Nacional de Periodistas. Considerammo che Caracas doveva essere la capitale dell’unità latinoamericana nel settore della comunicazione alternativa.

Dicemmo quindi allora, come già in altre occasioni  al nostro caro amico: “compagno Joaco, vieni che questa è una terra liberata”.

Come ci sbagliavamo!

Traduzione a cura di Annalisa Melandri

 

 


Rescatadas las computadoras de Osama Bin Laden

0 commenti

Roban la idea a los colegas del DAS ya que el truco les  ha funcionado muy bien…

Los EEUU tiene computadoras dizque  pertenecientes a Bin Laden. Al parecer han salido intactas al bombardeo, las han tirado por error al  mar junto al cuerpo del terrorista pero han sido rescatadas del agua y hombres  de INTERPOL  y de la CIA aseguran que están perfectamente funcionantes.

En estos momentos los técnicos informáticos están revisando miles y miles y miles y miles y miles y miles … de correos. Osama guardaba todo, no borraba nada. Se sabe que él tanto cómo  Raúl Reyes, el  n. 2 de las FARC , eran coleccionistas  de correos electrónicos.

Indiscreciones aseguran que hay nombres conocidos. Una agencia de prensa informa que por ejemplo se vocifera  de Chávez hasta Gadafi, de Julian Assange  hasta el mismo Obama, de Gandhi hasta Malcom X, de Mickey Mouse hasta Mafalda.

Tu también, si propio tu, no mires atrás… tu  que estás leyendo esta líneas, un día quien sabe, no lo recuerdas,  pero pudieras haber escrito algún correo a OSAMA … cuidado pues.…

La magia sigue…

 


Vite senza corpi: Memoria, Verità e Giustizia per i desaparecidos italiani all’ESMA

0 commenti
Palazzo Valentini
Via IV novembre 119/A

Sala del “Di Liegro”

mercoledì 4 maggio 2011
Presentazione del volume:
Vite senza corpi
Memoria, Verità e Giustizia
per i desaparecidos italiani all’ESMA
A cura di
Jorge Ithurburu – Cristiano Colombi
Edizioni Gorée
Ore 17.00
Saluti delle Autorità:
S.E. Torcuato Di Tella, Ambasciatore argentino in Italia
On. Mario Oliverio, Presidente della Provincia di Cosenza
On. Massimiliano Massilimiani, Provincia di Roma
Ore 17.30
Incontro con gli Autori:
Vera Vigevani, Madres de Plaza de Mayo
Francesco Caporale, Pubblico Ministero
Anna Maria De Luca, giornalista Repubblica.it
Jorge Ithurburu, Presidente 24marzo Onlus
Cristiano Colombi, Presidente SAL Onlus
Modera:
Cecilia Rinaldini, Giornalista Radio RAI

 

Il processo ESMA (Escuela Superior de Mecánica de la Armada, ovvero la scuola ufficiali della Marina Militare argentina, il più noto centro di detenzione clandestina allestito durante la dittatura), come tutti gli altri processi sui  desaparecidos italiani in argentina, è stato portato avanti da un comitato promotore formato da un insieme di associazioni, enti e professionisti, donne e uomini di buona volontà e singoli cittadini che a vario titolo hanno dato il loro apporto volontario. Questo libro vuole rispecchiare la pluralità di un agire collettivo, presentando le diverse prospettive dei singoli autori che hanno partecipato direttamente e senza esclusione al processo.
Le giornaliste Cecilia Rinaldini ed Anna Maria De Luca hanno raccontato le udienze di  Rebibbia al pubblico di Radio RAI e Repubblica.it. Il fisico Mario Villani, la «Madre di Plaza de Mayo» Vera Vigevani ed il Ministro argentino Eduardo Luis Duhalde sono stati sentiti in qualità di testimoni e persone informate sui fatti. Marcello Gentili, Giancarlo Maniga e Nicola Brigida sono stati gli avvocati di parte civile e Francesco Caporale il Pubblico Ministero.
A ciascuno di loro abbiamo chiesto di ricostruire cosa abbia rappresentato l’ESMA cercando di evidenziare alcuni degli elementi emersi durante il dibattimento che potrebbero avere un’utilità ed una valenza generale, il dolore e la sofferenza resi pubblici dal processo.

 


La censura di Stato di TeleSUR sul caso Joaquín Pérez Becerra

0 commenti

E’  stato allegramente pubblicato un articolo veramente  infamante da parte della redazione di TeleSUR sul caso  del direttore dell’ agenzia ANNCOL, arrestato  in Venezuela ed estradato in Colombia: o a TeleSUR  hanno la memoria corta,  oppure le direttive di governo sono più  forti della necessaria solidarietà  a un giornalista da sempre coerente con gli stessi  ideali bolivariani di questa catena televisiva nata sei anni fa come mezzo di informazione rivoluzionario e come “progetto latinoamericano alternativo al neoliberalismo”.

Sembra che qualcosa sia andato perduto di quei  valori originari nei pochi anni che sono trascorsi da quel 24 luglio 2005, quando nel 222° anniversario della nascita di Simón Bolívar, l’antenna televisiva iniziava a trasmettere il suo primo blocco informativo.

L’articolo al quale mi riferisco porta il titolo “Su Joaquín Pérez Becerra” ed è scritto da  tal Iván Maíza (che né so chi è e nemmeno voglio saperlo) ed è il primo (e l’unico di opinione) che  si trova su Google cercando TeleSUR+Joaquín Becerra. Le altre notizie pubblicate da TeleSUR sull’arresto all’aeroporto di Caracas e la successiva deportazione in Colombia del giornalista svedese sono di cronaca nuda e cruda.

Evidentemente la redazione di TeleSUR non ricorda più la solidarietà che molti militanti e “giornalisti terroristi” come ora chi chiamano,   manifestammo  quando nel mese di novembre del 2006,  in Colombia il DAS arrestò il suo   corrispondente  Fredy Muñoz, accusandolo di essere membro delle FARC.

L’allora direttore dell’antenna televisiva, Andrés Izarra,  attuale ministro della Comunicazione e Informazione, in quella circostanza dichiarò molto preoccupato: “la vita di Muñoz è in pericolo”. Aveva ragione. La Colombia non è un paese sicuro per i giornalisti che denunciano l’imperante terrorismo di Stato promosso dal suo governo e apparati di sicurezza.

La Colombia però, e questo la redazione di TeleSUR dovrebbe saperlo molto bene, non è un paese sicuro nemmeno per Joaquín Pérez Becera, a maggior ragione non lo è per lui,  nato là, ex consigliere comunale del partito Unión Patriotíca, che a seguito delle  minacce ricevute,    circa 20 anni fa dovette abbandonare il  paese per non diventare  un numero in più degli oltre 4000 militanti di quel movimento politico  assassinati in pochi anni dai paramilitari e dall’ esercito  colombiano. In quel genocidio politico conosciuto con il macabro nome di Baile Rojo (Danza Rossa) sequestrarono e uccisero anche la sua prima moglie.

Joaquín quindi cercò  rifugio in Svezia e in questo paese europeo ottenne asilo politico e cittadinanza.

Nonostante questa storia, le autorità del Venezuela lo hanno arrestato, deportato e consegnato nelle mani del presidente colombiano Manuel Santos (ex ministro della difesa del governo Uribe) senza battere ciglio, dopo la telefonata ricevuta da Chávez con la quale il suo omologo colombiano gli chiedeva il favore.

TeleSUR quindi oltre a non preoccuparsi della sicurezza di Joaquín Pérez Becera,  pubblica anche articoli offensivi e denigranti  su di lui.

Conoscendo il percorso umano e politico del giornalista svedese, che abbiamo appena raccontato, leggere le infamanti domande (non dimentichiamolo! pubblicate come opinione sulla pagina di TeleSUR e non su qualsiasi piccolo blog) che pone  il tal Maíza,  autore dell’articolo, non possiamo non riflettere sul nuovo corso intrapreso dalla Rivoluzione Bolivariana: “Chi ha fatto salire in questo momento Joaquín sull’aereo­? Chi lo ha venduto per mettere la Rivoluzione Bolivariana a rischio di perdere il suo ordine strategico?… ci sono settori nella sinistra rivoluzionaria che ricevono ordini dal DAS?”

Questo si può leggere nella pagina di una catena televisiva che pretende di essere alternativa oltre che rivoluzionaria, che vuole dare la voce ai senza voce… Che pretende di rappresentare  un governo rivoluzionario, bolivariano…

Ma non basta. La cosa peggiore è che l’ex presidente di TeleSUR,  Andrés Izarra,  dal suo terzo incarico come ministro della Comunicazione e dell’Informazione, fa del sabotaggio perfino sulla copertura informativa rispetto alle giuste proteste che il governo sta ricevendo in questi giorni per la deportazione di Joaquín Becerra.

Ieri a Caracas, di fronte al ministero degli Esteri, dove centinaia di rappresentanti dei movimenti sociali e organizzazioni politiche si erano riuniti per chiedere al governo spiegazioni su quanto accaduto, oltre al fatto che i giornalisti di TeleSUR non erano presenti (ricevono precise disposizioni dal ministero della Comunicazione, MINCI) non lo erano nemmeno quelli dei maggiori mezzi di informazione del paese. I pochi alternativi che hanno coperto le proteste come l’Agencia Bolivariana de Prensa (sarà una casualità ma la pagina ABP oggi non funziona), Radio  del Sur, Avila TV,  Catia TV, Tribuna Popular, ALBATV,  lo hanno fatto  “contravvenendo l’orientamento generale dato dal  ministero della Comunicazione”.

Fonti  venezuelane presenti hanno commentato che lo stesso Izarra stava realizzando varie chiamate telefoniche  minacciando e insultando i giornalisti per la copertura che stavano dando alla mobilitazione.

Tornano allora alla mente le dichiarazioni che faceva in una intervista due anni fa Aram Aharonian, importante giornalista uruguayano, uno dei fondatori ed ex direttore di TeleSUR, allontanatosi dalla televisione per “differenze politiche ed anche etiche” : “TeleSUR è occupata da inetti, controrivoluzionari nel più ampio senso della parola: gente che recita  slogan per sembrare rivoluzionaria  ma che non ha la minima idea di cosa voglia dire”. Le sue accuse, che allora apparivano  gravi e pesanti, erano rivolte a Izarra. Ora sono invece confermate sicuramente dai fatti.

Annalisa Melandri — www.annalisamelandri.it

 

Certo bisogna farne di strada/da una ginnastica d’obbedienza

fino ad un gesto molto più umano/che ti dia il senso della violenza

però bisogna farne altrettanta /per diventare così coglioni

da non riuscire più a capire/che non ci sono poteri buoni.

(Fabrizio De Andrè)

 

 


Pagina 50 di 175« Prima...102030...4849505152...607080...Ultima »