Padre Andrés Tamayo: un sacerdote sulle barricate

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Un sacerdote sulle barricate

Di:  Geraldina Colotti

Fonte: il manifesto

Leader ambientalista e portavoce del «Fronte di resistenza popolare al colpo di stato» del 2009, Teologo della liberazione, il religioso salvadoregno ha messo la sua vita al servizio degli ultimi.

L’Honduras è piccolo, ma è un paradiso su cui le multinazionali hanno allungato le mani facendo grandi profitti senza  dare nulla alle popolazioni locali. L’Italia lo conosce solo per “L’Isola dei famosi”, ma gira la testa di fronte alle violazioni dei diritti umani perpetrati da un golpista di origine bergamasca come Micheletti e alle responsabilità di un magnate dei media comeRafael Ferrari». Non usa mezzi termini padre Andrés Tamayo, quando si tratta di  difendere gli ultimi: in questo caso quell’oltre 63% di honduregni che, nel paese  centroamericano grande come un terzo dell’Italia, vive sotto la soglia di povertà. «Ho scelto di abbracciare la causa del popolo — dice al manifesto -, con mezzi pacifici ma senza risparmio». Al punto di diventare un dirigente del Frente di resistencia popular in Honduras: «Mi occupo – spiega – del settore Orientamento, di far crescere la coscienza nella base». Il Vangelo di Tamayo è quello della Teologia della Liberazione. Nato in Salvador, è stato chierichetto di Oscar Romero, l’arcivescovo di San Salvador, ucciso il 24 Marzo 1980 da un sicario del governo mentre celebrava la messa. Una fine a cui è scampato di misura anche lui, sopravvissuto in Honduras a cinque attentati. Quattro dei suoi più stretti collaboratori sono stati uccisi da sicari mai identificati. Gli ultimi due tentativi di eliminarlo si sono verificati dopo il colpo di stato del  28 giugno 2009, che ha costretto all’esilio il presidente Manuel Zelaya. Da allora, Tamayo è obbligato a nascondersi: «Sono stato espulso – precisa — dal paese e da quella Chiesa che non ha alzato la voce insieme al popolo, ma a favore del potere; che ha chiuso i suoi spazi alla protesta e, a differenza della chiesa di base, ha perso l’opportunità di agire da profeta del futuro: e non ha più fra la popolazione che lotta per una causa giusta». In quanto leader del Movimento ambientalista dell’Olancho (Mao), nel 2004 Tamayo ha ricevuto il prestigioso Goldman Prize, il Nobel alternativo per l’ambiente. In questi giorni, è in Italia per un giro di conferenze, ospite del centro Balducci di Zugliano (Udine) e dei missionari comboniani e ha parlato con il manifesto della situazione in Honduras e del suo impegno per la giustizia sociale.

Un sacerdote in politica e con un ruolo preminente. Com’è cominciata?

Ho sempre avuto un’inclinazione sociale per la giustizia e per il bene comune della popolazione e sempre in questa chiave ho inteso il processo pastorale. Negli anni ’90, quand’ero parroco nel municipio di Salamà ho partecipato ai movimenti per la difesa della foresta, contro lo sfruttamento selvaggio delle miniere d’oro, che inquinano i corsi d’acqua, e per il governo delle risorse naturali. L’Honduras è sempre stato depredato delle sue risorse, soprattutto del  legname. Nel 2000 ci siamo resi conto che, in dieci anni, il paese aveva già perso più del 10% delle proprie foreste. Gran parte del legname veniva tagliato illegalmente, venduto soprattutto negli Stati uniti e in Europa: un volume d’affari che avrebbe consentito alla popolazione di  vivere in modo dignitoso, invece vedevamo gli alberi scomparire, la pioggia diminuire, le falde acquifere inaridirsi, i contadini impoveriti spinti alla deforestazione selvaggia. Quattro multinazionali — una delle quali, la Sansoni, è italiana mentre la più importante è  cubanoamericana, la Aljoma Lumber — si sono impadronite di queste risorse, hanno il monopolio dell’esportazione. Nella parte nordorientale del paese, dove si trova l’Olancho, il  dipartimento più grande, riserve della biosfera come quella del Rio Platano sono state devastate. Nel 2000, la popolazione ha cominciato a protestare, a chiedere una moratoria al taglio del legname. Nel 2002, ho partecipato a uno sciopero della fame di 30 giorni, e si è messo in moto il processo che ha portato a due marce per la vita: la prima, nel 2003, di 190 km, e quella del 2004 a cui hanno partecipato oltre 50.000 persone provenienti da tutto il paese. Cercavamo di ottenere un tavolo di trattativa, ma il colpo di stato contro il presidente Manuel Zelaya, il 28 giugno 2009, ha chiuso ogni via d’uscita. Anche allora mi sono messo a fianco del popolo, per infondere coraggio a chi manifestava per i propri diritti. L’attuale governo di Porfirio Lobo è lì per garantire mano libera allo sfruttamento delle risorse da parte delle grandi famiglie e delle multinazionali che controllano l’80% della ricchezza. Ogni cinque minuti si distrugge un ettaro di bosco.

Gli indigeni garifuna, gli afro-discendenti che vivono lungo la costa Atlantica e che sono i più colpiti dalla devastazione di propri territori, a febbraio hanno organizzato l’Asamblea Constituente de los pueblos indiegenas y negros de Honduras e il 1 di aprile hanno dato vita a una marcia contro la repressione. Qual è il loro peso politico nel movimento di resistenza?

Molto forte. I garifunas vivono in Honduras da oltre 200 anni. I loro territori sono quasi un paradiso e per questo gli indigeni vengono deportati. Il pretesto è il turismo. A Roatan, dove si sta girando il reality «L’isola dei famosi», vi sono villaggi turistici e commerci gestiti da grandi imprese occidentali, che cercano di corromperli offrendo loro briciole. Gli afrodiscendenti, però, si sono organizzati e partecipano con le loro rappresentanze al Frente. In molti hanno pagato con la vita. Anche se l’elezione di Porfirio Lobo è stata una farsa a cui oltre il 65% dei cittadini non ha partecipato, in questo momento il potere ha in mano tutte le leve, chiunque cerca di opporsi viene  ssassinato. La Cia, insieme all’esercito colombiano e ai servizi segreti israeliani, addestra imilitari agli assassinii mirati degli oppositori, e poi fa credere che si tratti di delitti comuni. Il governo ha cercato di sbiancare il colpo di stato con una Commissione di verità costituita unilateralmente, mentre noi chiediamo che ne venga formata una vera per far luce sugli omicidi di maestre, giornalisti, sindacalisti… Le organizzazioni indigene e ambientaliste continuano a presidiare le sorgenti, organizzano momenti di resistenza contro la deforestazione, sperando in un cambiamento politico e nel ritorno alla democrazia.

Su cosa si basa questa speranza?

Il Frente di resistencia popular è una forza alternativa a cui partecipano gruppi di donne — che sono molto importanti-, organizzazioni contadine, intellettuali, indigeni. È nato dopo il colpo di stato del 28 giugno 2009 e si è rafforzato nel corso di quasi due anni in termini di rappresentanza e credibilità: in difesa della libertà del popolo e per la costruzione di un vero cambiamento sociale e politico in Honduras. I nostri principali obiettivi sono quattro: il ritorno in sicurezza di tutti gli esiliati come me, a partire dal presidente Manuel Zelaya,  oordinatore del Frente. Il rispetto dei diritti umani e la punizione dei golpisti. La realizzazione di un’Assemblea nazionale costituente, partecipativa, inclusiva e democratica. Il   riconoscimento del Frente come organizzazione politica e sociale belligerante in Honduras: una vera organizzazione politica, indipendente ed estesa su scala nazionale qual è, e non un’organizzazione di quartiere come vorrebbe far credere il governo Lobo. Per questo, contiamo sulle nostre forze ma anche sulla mediazione internazionale intrapresa dal presidente venezuelano Hugo Chavez e da quei paesi dell’America latina i quali, all’interno dell’Alba o di Unasur, sostengono un cambiamento progressista dell’Honduras.

Uno dei principali mediatori è Manuel Santos, il presidente della Colombia, un paese non proprio campione dei diritti umani.

Anche se la politica dei governi non sempre parla la lingua del popolo (che esprime forte e chiaro i propri obiettivi), per noi questa mediazione costituisce un passo avanti. Prima eravamo costretti a cercare un dialogo impari e senza giustizia con un potere che ha tutto il potere, ora invece ci sarà qualcuno che potrà sostenere la nostra proposta in quattro punti. L’ostacolo più serio, però, è la pressione della destra Usa perché l’Honduras entri nell’Osa, in modo che i finanziamenti internazionali possano finire nelle solite tasche. Comunque vadano le cose, però, è nostra ferma intenzione procedere all’autoconvocazione dell’Assemblea costituente che porterà a una nuova costituzione a cui il popolo ha diritto: entro il 28 giugno, a due anni dal colpo di stato

 

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