Laurea ad Honorem a Michelle Bachelet: carta por protesta al Ministro Fabio Mussi

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Publico de buenas ganas la carta enviada al Ministro de la Universidad e la Investigación Científica  Fabio Mussi, como protesta en contra de la decisión tomada por la Universidad de Siena de atribuir una Laurea ad Honorem al presidente de Chile, señora Bachelet.
En la página  web de la televisión de Estado Rai.it   refiere que “Micelle Bachelet serà condecorada con dicho título por su “compromiso político en defensa de la democracia y de los derechos humanos, por el aporte al desarrollo de la medicina social y de la salud pública”.
Sabemos que eso es falso, que es probado por los ultímos acontecimientos en Chile y la situación siempre más grave en que se encuentran los pueblos mapuche y  chileno en materia de derechos humanos.

Quien lo desea, puede escribir al Ministro Mussi a : mussi_fatcameradotit  (mussi_fatcameradotit)  

CARTA ABIERTA    
 
al
Sr Ministro
De la Universidad y de la Investigación
Científica
dr Fabio Mussi,
                                                          
                                                                       Hemos recibido la noticia de la Laurea ad honorem que será asignada por la Universidad de Siena al presidente de Chile señora Michelle Bachelet.
            No conocemos los criterios que han motivado la aprobación por Usted atribuida a la entrega de esta laurea.
 
          Lo que conocemos, es la violación de los Derechos Humanos que existe en Chile y la represión sistemática del estado chileno contra el Pueblo Mapuche, en lo sustancial el proseguimiento del sistema represivo establecido por la Dictadura Militar y actualmente administrada por la señora Bachelet
 
                   Sabemos que el gobierno de la señora Bachelet permite a las transnacionales y a los latifundistas adueñarse y devastar el territorio perteneciente al pueblo originario mapuche.
 
                                           Sabemos que la señora Bachelet permite la aplicación de la ley antiterrorista 18.314, promulgada por Pinochet y todavía en vigencia, exclusivamente en territorios mapuche. Este es un comportamiento racista contra los mapuches que pacíficamente revindican sus derechos.
                                       Sabemos que en Chile hay almenos 23 detenidos (otras fuentes informativas citan 50) entre lonkos y comuneros mapuches. La señora Bachelet niega el encarcelamiento esencialmente politico de estos prisioneros.
 
                                         Sabemos que los mapuches prisioneros politicos sufren una condena emitida después de un juicio irregular con testigos contratados, aparecidos en la sala con el rostro oculto. Sabemos que durante la encarcelación los comuneros son víctimas de vejámenes y torturas; sabemos que sus familiares, también niños son amenazados, chantajeados y perseguidos.
 
                                          Conocemos las condiciones de indigencia a la cuál está obligado por las persecusiones el Pueblo Mapuche.
                                            
                                          Sabemos que la señora Bachelet se negó a testificar en el Informe Valech sobre Prisión y Tortura cuando era ministro de Defensa.
            Esto, señor Ministro, basta para contrarrestar “el compromiso politico en defensa de la democracia y de los derechos humanos”,
vanagloriosa propaganda de la señora Bachelet que la Universidad de Siena da crédito.
                                           Señor Ministro , estamos indignados y rechazamos el otorgamiento de esta inmerecida Laurea ad honorem a la señora Michelle Bachelet.
 
                                                                                               Saludos cordiales.
 
 
FIRMAN:
 
As. WENUYKAN AMICIZIA CON IL POPOLO MAPUCHE
href=“http://wenuykanatgmaildotcom ” target=“_blank”>http://wenuykanatgmaildotcom    Como — Italia
 
As. ARGENTINA VIENTOS DEL SUR
http://www.vientosdelsur.org   Udine — Italia                   
 
As. CULTURA MAPUCHE Goteborg Svezia
href=“http://kulturamapucheatgmaildotcom ” target=“_blank”>http://kulturamapucheatgmaildotcom  Sebastian Sepúlveda Presidente
 
RADIO REGION IVX
href=“http://radioregion14atgmaildotcom ” target=“_blank”>http://radioregion14atgmaildotcom - Svezia
 
SOLIDARIDAD CON EL PUEBLO MAPUCHE
Coordinación en Italia
href=“http://violetadotserenaatfastwebnetdotit” target=“_blank”>http://violetadotserenaatfastwebnetdotit
 
 
 
                                                                                             


Flavio Sosa: se la lotta è per il cambiamento, allora vale la pena soffrire.

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L’arrivo di Flavio Sosa all’aeroporto di Oaxaca (foto La Jornada)

Il 15 agosto scorso, in seguito alle forti pressioni della comunità internazionale e delle associazioni per la difesa dei diritti umani, Flavio Sosa Villavicencio, leader dell’Assemblea Popolare di Popoli di Oaxaca (APPO) e suo  fratello Horacio sono stati trasferiti dal penitenziario di massima sicurezza di Città del Messico al carcere regionale dello stato di Oaxaca.
I due fratelli Sosa si trovavano nel penitenziario del Altiplano dal 4 dicembre del 2006 quando furono arrestati “a sorpresa” dopo una conferenza stampa nella quale si assicurava che erano in corso trattative per risolvere il conflitto sociale allora in corso.
Il governo di Oaxaca ha diffuso un comunicato secondo il quale il trasferimento dei fratelli Sosa è avvenuto per accogliere le richieste dei loro familiari nonchè quelle della Commissione Nazionale dei Diritti Umani.
Ciò nonostante è stata molto forte la pressione esercitata sulle autorità federali e statali da parte di tutta la comunità internazionale affinchè i due fratelli Sosa potessero essere giudicati in un carcere regionale.
Ieri,  nella sua prima intervista (a La Jornada) rilasciata da quando si trova in carcere, Flavio Sosa ha fatto sapere che “se la lotta è per il cambiamento, allora vale la pena soffrire”.
“Io non negozierò nulla con il governatore Ulises Ruiz, non ho commesso nessun delitto e prima o poi uscirò dal carcere”.
Ha affermato inoltre che “lo Stato messicano ha lanciato una brutale repressione contro il popolo di Oaxaca. Ha torturato e imprigionato  molte persone senza che avessero commesso nessun delitto. E in un caso inedito nella storia recente dello Stato, siamo stati condotti in prigioni di massima sicurezza dello Stato del Messico come Nayarit e Tamaulipas soltanto per aver alzato la voce”.
Alla domanda se valga la pena soffrire tanto per una causa, Flavio risponde sicuro: “certo che vale la pena, la mia famiglia e quelle di tanti altri hanno sofferto cose terribili, ma se la lotta è per il cambiamento, allora vale la pena soffrire.
 
 


Hugo Chàvez: Europa “regina” del cinismo.

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Hugo Chávez e la Constitución “roja rojita”

L’Europa “è cinica”,  ha ragione Chávez.
L’europa che lo deride e che critica il suo programma di riforma costituzionale, ancora oggi, ha detto Hugo Chávez “ha ben 6 monarchie ereditarie e dieci regimi politici  che contemplano la possibilità della rielezione illimitata dei suoi presidenti”.

“Magari in Europa si consultassero i popoli sui suoi sistemi politici ed economici , loro che hanno re e regine che nessuno elegge e che si perpetuano per il loro carattere erediatrio” ha detto il presidente venezuelano.


Oaxaca

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Arrivo a Oaxaca alle 3 del mattino in autobus, 7 ore di viaggio da Città del Messico.
Domandiamo al tassista che ci sta accompagnando in albergo se la situazione sia tornata tranquilla dopo la violenta repressione di un anno fa della protesta civile dei maestri e del movimento sociale della APPO e dopo gli ultimi gravi episodi del 17 luglio di quest’anno, quando in occasione della festività della Guelaguetza popular sono state arrestate circa trenta persone e un uomo si trova tutt’ora in gravissime condizioni in ospedale. Come infastidito dalla domanda, a mezza bocca e a bassa voce ci dice che adesso la situazione è più tranquilla, che ci sono turisti e che “quelli della APPO sono tornati da dove sono venuti, erano venuti da fuori a creare problemi” dice.
Sembra non crederci nemmeno lui. Si intuisce che non e’ contento di parlare di quello che e’ successo e nei giorni successivi avrò modo di rendermi conto che questo è un sentimento abbastanza diffuso qui. La gente di Oaxaca prova imbarazzo e fastidio a raccontare quello che e’ sucesso a una turista occidentale. Loro che vivevano e vivono quasi esclusivamente di turismo soltanto adesso tirano un respiro di sollievo e vedono riprendere le loro attività. Mi rendo conto di come la criminalizzazione del movimento abbia raggiunto i risultati sperati.
La campagna che è stata portata avanti dal governo statale e che ha fatto passare i maestri della Sección 22 del Sindacato Nazionale dei Lavoratori dell’Educazione e gli appartenenti alla APPO come dei delinquenti violenti o peggio dei terroristi ha attecchito presso la popolazione, soprattutto fra coloro i quali hanno risentito maggiormente, in termini economici, delle conseguenza della protesta civile, e cioè gli operatori del turismo, i commercianti, i tassisti. Ci sono infatti, due anime distinte che convivono qui ad Oaxaca, coloro i quali condannano la APPO e il movimento sociale, i più vicini al governo panista, quelli che si sono lasciati maggiormente manipolare dalla campagna che ha dipinto il movimento sociale di Oaxaca come una fucina di violenza e terrorismo, e l’anima più popolare, quella indígena, che parlando per strada o nei negozi dice senza timore che “Ulises tiene que caer”, deve cadere. E come accade spesso, nel mezzo prendono posto gli indifferenti. “Ruiz está sordo” mi dice una vecchia contadina in un taxi colectivo, mentre l’autista le risponde “sono tutti uguali, basta che mi lascino lavorare”.
Il governatore di Oaxaca è sordo alle richieste dei settori più poveri dello stato che chiedono di poter disporre più autonomamente delle risorse naturali e soprattutto di beneficiarne e sordo alle richieste di maggior attenzione rispetto alle necesità primarie di educazione, salute, lavoro. Il popolo dello stato di Oaxaca non si sente rappresentato dal suo governo e questa forse è stata e continua ad essere, anche se portata avanti diversamente, la vera anima della protesta. Jessica Sánchez della LIMEDDH di Oaxaca, che incontro nel suo ufficio e che ringrazio per la disponibilità ed il tempo che mi ha dedicato, mi dice che paradossalmente è un bene che Ulises Ruiz sia ancora al suo posto, questo infatti sta permettendo a diversi settori della popolazione di organizzarsi e di approntare nuovi metodi e tappe di lotta. Forse è proprio questa la nuova consapevolezza e maturitá che si percepiscono adesso a Oaxaca.
Oaxaca e’ tranquilla e solare. Lo Zócalo risuona delle voci dei bambini, c’è la musica , la gente che passeggia o pranza sotto il porticato. Questa atmosfera deve essere ben diversa da quella che si respirava appena un anno fa. Vado al mercato Benito Juárez per la colazione, in uno dei tanti comedores. Mi lascio condurre da colori ed odori e mi sembra bellissimo. Torno in piazza, è in festa, oggi è domenica e molte persone giungono dai villaggi vicini. L’unico servizio di sicurezza è rappresentato da quattro donne della polizia municipale, che percorrono la piazza sorridendo, ogni tanto fermandosi in un angolo a chiacchierare con un collega che sembra un bambino. E’ come se la città intera abbia esorcizzato l’accaduto, lo abbia riimosso, molti addirittura ignorano i motivi degli ultimi scontri del 16 luglio e parlano di ciò che è avvenuto lo scorso anno come se si trattasse di qualcosa accaduto molto tempo prima e in un altro luogo. Oaxaca adesso ha bisogno di tempo, del suo tempo, per risorgere e trovare pace mentre la sua gente, a un prezzo molto alto, si sta lentamente riappropriando della sua coscienza civile.

Perú

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Un abrazo solidario a todos mis amigos peruanos. Quisiera estar con Ustedes.


9 agosto: giornata internazionale dei popoli indigeni

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Ancora lontana la firma per la Dichiarazione dei diritti dei Popoli Indigeni. A bloccare l’accordo Stati Uniti, Colombia, Canada, Australia e Nuova Zelanda.
 
Fonte A Sud
Si celebra quest’anno la 14° giornata internazionale dei popoli indigeni, indetta dalle Nazioni Unite nel 1994, per ricordare l’importanza delle culture originarie e la necessità di difenderle dalle continue violazioni subite e dall’incombente rischio di estinzione. L’apporto delle popolazioni indigene all’umanità va ben oltre il folklore delle loro tradizioni. Le culture originarie infatti rappresentano nella storia umana il più importante esempio di rispetto per la vita e per l’ambiente, oltre che di spiritualità e di valori non individuali ma collettivi.In una fase come quella attuale, in cui il pianeta è minacciato da catastrofi naturali, guerre e dall’incedere della povertà, è quanto mai importante riflettere sull’insegnamento proveniente dai popoli che hanno vissuto e convissuto per migliaia di anni – in assoluta armonia – con l’ambiente circostante, riconoscendo l’importantissimo ruolo che i popoli indigeni svolgono nella difesa della madre terra e delle risorse naturali, contro gli interessi economici dei governi e delle imprese transnazionali che portano avanti uno sfruttamento irrazionale e spesso selvaggio delle risorse disponibili. La celebrazione della Giornata Internazionale dei Popoli Indigeni è un’ulteriore occasione per esprimere loro, ancora una volta, il nostro riconoscimento per le storiche lotte portate avanti in diversi angoli del mondo. Contemporaneamente, è un’occasione per riaffermare la necessità di dare nuovo impulso alla battaglia mondiale per il pieno riconoscimento dei diritti di questi popoli, che continuano, per effetto del pregiudizio, della discriminazione, dell’esclusione sociale, ad essere vittime di continui soprusi, perpetrati in nome della cosiddetta civiltà o del mercato.Nonostante i secoli di tradizioni, cultura, insegnamenti tramandati, i popoli indigeni continuano infatti ad essere tra le comunità più povere ed emarginate del pianeta.Ancora oggi, e nonostante anni ed anni di attesa, le Nazioni Unite continuano a rimandare la firma della sospirata Dichiarazione dei Diritti Universali dei Popoli Indigeni, che dovrebbe ribadire e tutelare il diritto dei popoli all’autodeterminazione, alla sovranità territoriale ed alimentare, alla salvaguardia della cultura tradizionale. Il progetto è attualmente bloccato per mancanza di volontà politica e per gli ostacoli posti da Paesi come – tra gli altri – il Canada, gli USA, la Nuova Zelanda, la Colombia e l’Australia, preoccupati delle conseguenze giuridiche che tale dichiarazione potrebbe avere rispetto alle numerosissime ed atroci violazioni da essi compiute contro le popolazioni indigene negli ultimi decenni.In Colombia, per fare solo alcuni esempi, delle oltre 85 etnie indigene presenti ben 18 corrono a tutt’oggi rischio di totale estinzione. In Ecuador, le scellerate politiche portate avanti dalla multinazionale Texaco, hanno portato alla completa estinzione di ben 3 etnie indigene. In Nigeria, l’oltre mezzo secolo di estrazione petrolifera portata avanti da multinazionali come l’ENI e la Shell, ha ridotto drasticamente la popolazione degli Ogoni, lasciando i sopravvissuti nella povertà più estrema. Ancora in Canada, Nuova Zelanda, Australia i Governi e le imprese private sono colpevoli di gravissime violazioni dei diritti delle popolazioni indigene.Nel febbraio 2007 è stato presentato dal relatore speciale delle nazioni unite Rodolfo Stavenhaugen, in applicazione della risoluzione 60/251 dell’Assemblea generale dell’ONU, il rapporto sulla situazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali dei popoli indigeni.Nel rapporto veniva sottolineato che: “Nonostante i progressi nell’adozione di norme che riconoscono i diritti dei popoli indigeni, esse continuano ad essere pressoché inapplicate. Per dare visibilità alle rivendicazioni dei propri diritti e delle proprie legittime necessità, i popoli originari hanno fatto ricorso a differenti forme di organizzazione e mobilitazione sociale, che risultano essere frequentemente l’unica strada per rendere pubbliche le denunce indigene. Tuttavia, in troppi casi tale forma di protesta sociale viene criminalizzata dai governi, dando luogo alcune volte a gravi violazioni dei diritti Umani”.Secondo il rapporto “La tendenza alla diminuzione delle risorse naturali destinate ai popoli indigeni è rimasta invariata. I territori delle popolazioni ancestrali sono diminuiti, così come anche il controllo dei popoli sulle proprie risorse naturali ed in particolare sulle foreste. Particolarmente colpiti risultano i popoli che vivono in isolamento, come ad esempio nella zona amazzonica o nelle zone aride o semi-aride delle Ande”.Senza ombra di dubbio, la crescente tendenza migratoria di persone indigene è una delle espressioni della globalizzazione e della disuguaglianza e povertà de essa generate. I migranti indigeni sono particolarmente esposti al rischio di violazioni dei diritti umani, in particolare nelle miniere e nei lavori agricoli.Mancano ancora politiche adeguate per la protezione dei diritti umani dei popoli indigeni, ed in particolare delle donne indigene, che meriterebbero una legislazione molto più attenta alle problematiche della differenza di genere.Secondo il rapporto Stevenhaugen, i problemi dei popoli indigeni sono il prodotto di lunghi processi storici e di cause strutturali, che non possono essere risolti soltanto con l’adozione di un testo di legge o con la creazione di un organismo pubblico ad hoc, ma richiedono un approccio multidimensionale, di volontà politica e di partecipazione diretta delle stesse rappresentanze indigene, con alla base il rispetto per la diversità e la sensibilità interculturale. Tale prospettiva esige il concorso di diversi attori, iniziando appunto dagli stessi popoli originari, dai governi, dalla società e dalla rete delle organizzazioni internazionali.Per tale ragione, la condizione dei popoli originari nel mondo non può e non dev’essere una problematica rimandabile. Occorre pensare a misure pratiche per garantire loro non solo la sopravvivenza, ma il diritto alla dignità, all’autodeterminazione, al controllo dei propri territori e delle risorse naturali, per fare in modo che popoli che rappresentano una tale ricchezza culturale, umana, antropologica e politica smettano finalmente di ingrossare le fila dei meno protetti, degli esclusi, dei dimenticati.
 

Ingrid Betancourt, come i media italiani si prestano al gioco di una giornalista golpista

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Ingrid Betancourt

Credo che la notizia della presunta liberazione di Ingrid Betancourt  dovesse essere trattata con più delicatezza e serietà di come è stato fatto. Se non altro per rispetto verso i suoi familiari e per tutti gli altri sequestrati.
Ancora una volta la stampa italiana si è distinta per cialtroneria e pressappochismo.
L’Unità riporta in questo articolo come la  stampa francese faccia  notare che “i quotidiani italiani si sono basati su un’unica fonte per giunta poco affidabile”.
Molto poco affidabile.
La fonte infatti, la giornalista venezuelana  Patricia Poleo, “esule”a Miami, racconta di aver avuto l’informazione da militari di Caracas, ma ovviamente dichiara di non poter fare nomi.
La Poleo è accusata in Venezuela di essere addirittura la mandante dell’omicidio del magistrato Danilo Anderson, oltre che ha apertamente appoggiato il golpe contro Chávez dell’11 aprile.
La falsa notizia ha fatto sì che tra ieri e oggi i mezzi di comunicazione impazzissero letteralmente.
La Colombia ancora una volta purtroppo fa parlare di sé solo se l’argomento  ha il nome e il volto di Ingrid Betancourt.
In questo caso se ne è parlato troppo e malissimo.
Secondo Omero Ciai su La Repubblica,  se Chávez, che pure si era offerto come mediatore,  dovesse ottenere qualche risultato, questo automaticamente dimostrerebbe “un suo legame di complicità con la guerriglia”.
Il Tempo, quotidiano romano, riporta invece ciò che sostiene Patricia Poleo e cioè che il presidente venezuelano vedrebbe rialzate le sue quotazioni “in difficoltà davanti all’opinione pubblica internazionale dopo la vicenda del mancato rinnovo della licenza all’emittente Rctv” .
Al GR3 (edizione delle 8.45) di  radio3  questa mattina,  il Prof. Luigi Bonanate,  docente di relazioni internazionali all’Università di Torino, parlando di cambiamenti (una “terza via”, secondo il professore,  che si differenzia  dalla tendenza del passato dei governi a  richiudersi in se stessi  e da rivoluzioni ormai datate) in America Latina e  di “nuove presidenze”, cita a pari merito Lula, Chávez e Uribe (??!!).
Su l’Opinione.it diretto da Arturo Diaconale, il titolo (La “clemenza“ di Chávez) non lascia spazio a dubbi: era Chávez che teneva sotto sequestro la Betancourt e ha deciso di liberarla.
Sempre secondo l’Opinione, le FARC sarebbero diventate una “formazione paramilitare comunista” e anzi se “sono ancora attive in Colombia lo si deve, a quanto pare, soprattutto a lui”.
Chi è “lui”? Ovviamente Hugo Chávez, chi altri?
Si legge infatti: “Stando a fonti vicine all’opposizione venezuelana (e alle proteste colombiane), Chávez ha fornito alle Farc rifugi sicuri oltre il confine, armi e addestramento, subentrando a Cuba in questo ruolo storico di esportazione della rivoluzione nell’America Latina. Questo suo gesto di magnanimità, la liberazione di Ingrid Betancourt, dopo cinque anni di sequestro, sarebbe dunque un suo atto propagandistico.”
Giornata di stranezze,  e così solo  Panorama ricorda che forse la liberazione della Betancourt  sarebbe tutt’altro che una buona notizia per il presidente colombiano.
Intanto l’intransigenza di Uribe allontana sempre più la possibilità di uno scambio umanitario.
La sua proposta di concedere un’area smilitarizzata per 90 giorni soltanto dopo la liberazione di tutti i prigionieri, giudicata inaccettabile da tutti gli osservatori, a Rocco Cotroneo del Corriere della sera appare invece “come una piccola apertura”.
Purtroppo fino a che la situazione in Colombia non verrà affrontata nel modo giusto, con uno sguardo attento da parte della comunità internazionale sulle reali responsabilità che ha il potere politico colombiano, la solidarietà resterà una parola senza senso.
A Patricia Poleo non importa nulla della Betancourt, vuole solo gettare ombre e dubbi sul presidente Chávez e oggi i media   italiani bene si sono prestati al suo gioco.
Leggi anche.

Uribe criminalizza i sindacati con la scusa delle FARC.

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Il gatto e la volpe

(e Teleamazonas con la stessa scusa discredita il governo Correa…).
Nonostante Uribe continui a pellegrinare negli Stati Uniti elemosinando dal Congresso statunitense la firma del Trattato di Libero Commercio, sembra che debba penare ancora parecchio per ottenerla.
Soprattutto dovrà fare miracoli nel convincere tutti che sotto la sua presidenza la situazione in Colombia è migliorata rispetto alla violenza e all’impunità dei gruppi paramilitari e agli omicidi dei sindacalisti, relativamente ai quali il presidente  colombiano continua a fornire dati ben diversi da quelli in possesso delle associazioni umanitarie del suo paese.
Anzi,  è riuscito perfino, in un parco di Queens, New York,  approfittando delle celebrazioni  per  il giorno dell’indipendenza colombiana, con alcune migliaia di  connazionali immigrati negli Stati Uniti, a far passare la sua “personale verità”. E cioè che secondo la giustizia del suo paese nessuno degli omicidi di sindacalisti è in relazione  al loro lavoro  ed ha incolpato per queste morti in misura uguale sia la guerriglia che i paramilitari. Cercando di elemosinare consensi per la firma del TCL, che non viene ratificato dal congresso proprio per gli scarsi progressi del governo colombiano in materia di diritti e sicurezza ai sindacalisti, Uribe ha accusato questi ultimi  di fare “apologia di terrorismo” e di appoggiare i gruppi rivoluzionari, provocando così la reazione violenta dei paramilitari da sempre in lotta contro la guerriglia.
Già prima della sua partenza, in un incontro pubblico in Colombia,  aveva accusato duramente i sindacalisti colombiani di appoggiare le FARC e la lotta armata, e a New York  ha colto l’occasione per  ritornare sull’argomento.
Il pretesto è stato quello della partecipazione di tre organizzazioni sindacali colombiane, la Sintraemcali, la Sintratélefonos e la Sintraunicol all’ XI  seminario pubblico internazionale organizzato a Quito (Ecuador) tra il 9 ed il 13 luglio  dal Movimento Popolare Democratico (MPD) sui “Problemi della Rivoluzione in America Latina”.
Motivo della violenta critica verso i sindacati colombiani da parte sia di Uribe  che  del vicepresidente Santos, tra l’altro accusato da Salvatore Mancuso di aver collaborato con i paramilitari,  sono le dichiarazioni finali del documento conclusivo del seminario nelle quali le organizzazioni partecipanti “esprimono la loro solidarietá a tutti i popoli del mondo che lottano per conquistare la loro libertá sociale e nazionale e per le loro rivendicazioni specifiche e i loro  diritti politici, con i processi democratici che si svolgono in Venezuela, Bolivia ed Ecuador, con la lotta dei movimenti insurrezionalisti in Colombia, Filippine e Nepal…”
Alle accuse strumentali di Santos e di Uribe, il presidente del Sindicato de Trabajadores y Empleados Universitarios de Colombia ha risposto  di non aver mai  posto la sua firma in un documento in cui si appoggia la guerriglia.
I tre rappresentanti dei sindacati colombiani tra l’altro hanno partecipato soltanto ad una delle giornate del seminario in cui sono state tenute due tavole rotonde dal titolo: “La lotta dei lavoratori e dei popoli contro il capitalismo e l’oligarchia e “Mezzi di comunicazione alternativi e processi di cambiamento”.
Gli organizzatori del seminario, tra i quali Ciro Guzmán, direttore del Movimento Popolare Democratico (MPD),  in un comunicato inoltre hanno fatto sapere che non sono state  richieste sottoscrizioni al documento conclusivo e che le FARC e l’ELN non hanno partecipato con loro delegati agli incontri, ma che hanno inviato soltanto delle loro note, come hanno fatto tanti altri movimenti di sinistra latinoamericani.
Uribe attaccando i sindacati e accusandoli di avere relazioni con la guerriglia, ha tentato maldestramente di incolpare le FARC  e gli stessi sindacati delle repressioni a cui sono sottoposti  i  loro rappresentanti. Ricordiamo che solo nel 2006 sono stati 73 i sindacalisti uccisi in Colombia e che dal 1991 ci sono stati  2245 omicidi, 3400 minacce e 138 scomparse. “Questo è quello che ha ottenuto la guerriglia in Colombia e questo è quello che ha scatenato l’atroce persecuzione contro i leader sindacali” facendo intendere che i paramilitari assassinano i sindacalisti perchè li considerano “simparizzanti” dei guerriglieri.
Il fatto è che,come già è stato accusato di fare in passato,  è egli stesso che indirettamente nei suoi discorsi presidenziali fornisce ai paramilitari direttive di azione.
Accusare pubblicamente i sindacalisti di far parte della guerriglia davanti a una platea formata da riservisti dell’esercito e della polizia equivale a condannarli a morte.
E vale la pena ricordare che Jorge Noguera, il “bravo ragazzo” e grande amico di Uribe, ex console colombiano in Italia ed ex direttore del DAS colombiano, accusato di aver consegnato i servizi segreti colombiani nelle mani dei paramilitari, tra le altre cose è accusato di aver fornito loro liste di sindacalisti, operai e attivisti sociali per la loro eliminazione.
La CUT (Central Unitaria de Trabajadores) ha fatto sapere tramite il suo presidente Carlos Rodriíguez, che le dichioarazioni di Uribe sono “temerarie e irresponsabili” ed equivalgono ad una condanna a morte
Contemporaneamente invece, in Ecuador,  anche il potente canale televisivo Teleamazonas, di proprietà del gruppo Pinchincha di Fidel Egas Grijalva, usando gli stessi argomenti, diffonde false notizie con lo scopo di gettare discredito sul governo Correa.
Fidel Egas Grijalva,  tra le altre cose,  è proprietario della Diners Club Colombia ed in passato è stato accusato a Panama  di operare attraverso il Banco Pinchincha  con narcotraffico e riciclaggio di danaro sporco.
Teleamazonas ha diffuso infatti, la notizia  priva di ogni fondamento che un “alto rappresentante delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) avrebbero partecipato alla riunione dei movimenti di sinistra tenuta a Quito”.
Secondo Teleamazonas si sarebbe trattato di Narciso Isa Conde, la cui presenza sarebbe stata segnalata in Ecuador  secondo il  registro migratorio di questo paese  tra il 7 e l’11 luglio scorso. “Il soggetto, nato a Cuba e nazionalizzato nella Repubblica Dominicana sarebbe entrato nel paese disarmato e non si esclude che sia lui la persona che avrebbe partecipato all’incontro a nome delle FARC”.
Narciso Isa Conde racconta quanto accaduto in questo suo articolo.
Egli è un attivista politico e saggista dominicano ed è stato in prigione e torturato sotto la dittatura di Trujillo, ha intervistato in più di una occasione rappresentanti delle FARC nella foresta colombiana diffondendo sui mezzi di comunicazione fin dal 2006 foto ed interviste relative, senza che come egli stesso ha detto,“abbiano causato alcuno scandalo”.
Come riferisce nel suo articolo (e come i giornalisti di Teleamazonas ben sanno), “ignoro di essere nato a Cuba, anche se non me ne vergognerei. Secondo il mio atto di nascita, sono nato nella città di San Francisco de Macorís, nella Repubblica Dominicana. In verità ignoro anche quando le FARC mi abbiano arruolato nelle loro fila e mi abbiano  nominato tra i loro alti dirigenti…” 
Isa Conde ammette di essere stato in Ecuador in quei giorni disarmato (“anche se il mio libro En el Siglo XXI: ¿Cuál Democracia? ¿Cuál Socialismo? in Perú è stato definito una vera bomba) , ma soltanto per partecipare al seminario organizzato dal MPD a Quito.
Quello che è più inquietante in tutto questo è la  sinergia di intenti tra le forze conservatrici latinoamericane che forse ora più che in passato si vedono costrette a condividere metodi, scopi e menzogne per fronteggiare le istanze di sinistra che si vanno affermando con sempre maggior vigore.
E ancora una volta lo fanno attraverso i mezzi di comunicazione che probabilmente rappresentano  il loro vero punto di forza.
 
 
 
 
 
 

Roma, 19 luglio rovinata la festa all’ambasciatore colombiano

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In occasione della Festa per l’indipendenza, l’ambasciatore colombiano a
Roma, PRETELT de la VEGA, aveva organizzato presso la sua residenza un
brindisi con inviti al personale diplomatico a Roma.

Decine di persone in contemporanea hanno realizzato una manifestazione di
protesta per ricordare che la classe politica colombiana è da mesi
sotto accusa per aver sostenuto, finanziato, coperto, promosso le
attività dei gruppi paramilitari che si sono macchiati in questi anni
di atroci delitti con lo scopo di tutelare gli interessi delle
multinazionali e di sterminare l’opposizione politica e sociale.

Iniziative simili si sono svolte a Parigi e a Berna
4000 sindacalisti
uccisi dagli anni ’80 ad oggi, popolazioni indigene in via di
estinzione, 3,5 milioni di profughi interni sono alcune delle cifre di
questa barbarie.

I manifestanti hanno denunciato anche come in Italia
abbiano ricoperto incarichi diplomatici personaggi dal dubbio passato
come l’attuale AMBASCIATORE SABAS PRETELT DE LA VEGA  ideatore della
legge “di GIUSTIZIA e PACE” con la quale lo stato colombiano getta la
spugna su tutti i crimini commessi dai gruppi paramilitari e chi li ha
appoggiati, promettendo la non estradizione negli USA di alcuni dei
loro capi militari, di aver avuto relazioni con MANCUSO attuale numero
uno delle AUTODEFENSAS UNIDAS de COLOMBIA
Questa denuncia pubblica ha
evidentemente messo in difficoltà l’Ambasciatore il quale, davanti ai
suoi imbarazzati invitati, non ha esitato a sguinzagliare il personale
di servizio presso l’Ambasciata che si è esibito in più di una
provocazione ed ha anche preteso che le forze dell’ordine defiggessero
uno striscione che lo accusava di legami diretti con gli squadroni
della morte

Chiediamo alle Istituzioni Italiane, al Ministero degli
Esteri di rompere le relazioni diplomatiche con un paese governato da
un presidente, Alvaro Uribe Velez, che fu il maggiore sostenitore della
diffusione dei gruppi paramilitari in Colombia, e il cui personale
diplomatico in Italia e nel Mondo è sotto processo o accusato di
collusioni e responsabilità dirette con le attività degli squadroni
della morte.

 Roma 20 luglio 2007

Comitato Carlos Fonseca/REDHER
- Associazione ASUD – Rete Italiana Solidarietà “Colombia VIVE” -
Associazione Italia Nicaragua, Circolo Leonell Rugama – Confederazione
COBAS – Spazio Sociale Occupato EX-51,  REBOC, Rete Boicottaggio COCA
COLA – SINISTRA 19 – Claudio Ortale Cap. PRC-SE Municipio Roma19 –
Adriana Spera, Capogruppo PRC-SE al Comune di Roma — CUB Immigrazione

 


Colombia, il maestro e il paramilitare

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di Gennaro Carotenuto

Gustavo Moncayo, maestro elementare colombiano e padre di un poliziotto da quasi dieci anni sequestrato dai guerriglieri delle FARC, è arrivato a piedi a Bogotà dopo un viaggio di 46 giorni e oltre 1.200 km, per esigere che si realizzi lo scambio umanitario di prigionieri tra governo e guerriglia. A sorpresa il presidente colombiano Alvaro Uribe ha tentato di cooptarlo ed a sorpresa il maestro ha replicato: “queste catene sono contro di lei, presidente Uribe, lei non è il padrone della vita di mio figlio”.

Il maestro Gustavo (nella foto), dopo un viaggio che ha attraversato tutto il paese, si è istallato in una tenda nella Piazza Bolívar della capitale colombiana. Da lì non andrà via che con suo figlio. Lì è piombato il presidente, Alvaro Uribe, che ha provato a trasformare l’evento in una manifestazione di propaganda a suo favore. Non gli è andata bene.

Immaginate un umile maestro elementare, Gustavo Moncayo, faccia a faccia con il Presidente, Alvaro Uribe. Moncayo portava con sé il mandato di due milioni di colombiani che durante il cammino avevano firmato il suo appello. Dopo il colloquio privato, Uribe ha voluto tenere un comizio in diretta radiotelevisiva. Almeno 2.000 persone lo hanno fischiato e gridato slogan “Uribe paramilitare, il popolo è infuriato”.

Uribe a quel punto ha dato ai manifestanti del “sabotatori” e “complici della guerriglia”. Era solo l’inizio per lui. Subito dopo è apparso sul palco Moncayo, abbracciato a sua moglie e in lacrime (nella foto). Uribe stesso gli ha dato allora la parola, pensando evidentemente di poterlo controllare. Ottenuta la parola, Moncayo ha invece accusato il presidente di essere stato lui a sabotare ripetutamente lo scambio umanitario, arrivando perfino ad organizzare un autoattentato, per evitare che si arrivasse all’accordo.

Moncayo portava una maglietta bianca con la foto del figlio ed era incatenato, così come incatenato era partito dal suo paese, 1.200 km prima. Con grande coraggio il maestro ha accusato il presidente di essere colpevole di aver causato la morte di numerosi ostaggi, usando la forza e non il dialogo con le FARC: “queste catene sono contro di lei, presidente Uribe, lei non è il padrone della vita di mio figlio”. Il mese scorso 11 deputati morirono in un drammatico tentativo di liberazione con la forza fallito.

Come se non fosse sufficiente, il maestro Moncayo ha insistito mentre Uribe protestava: “Presidente la sua è una guerra personale, lei vuole solo vendicarsi delle FARC, non vuole arrivare alla pace”. Uribe è infatti da più parti accusato di stare conducendo la politica colombiana rispetto alla guerriglia non in maniera razionale, ma animato da spirito di vendetta verso le FARC. Il presidente accusa il gruppo guerrigliero di aver ucciso suo padre negli anni ’80 del secolo scorso. Intanto, la piazza appoggiava il maestro e continuava a fischiare e contestare il presidente.

Il maestro Moncayo, dopo aver evitato il tentativo di strumentalizzazione da parte di Uribe, resterà nella piazza, fino ad ottenere il suo obbiettivo: lo scambio umanitario. Lì è già stato raggiunto da decine di parenti di sequestrati, in gran parte poliziotti e militari, ma anche parlamentari come la ex-candidata presidenziale Ingrid Betancourt.
La tenda del maestro, Uribe lo aveva capito bene, è da oggi il centro della vita politica colombiana.


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