Arance amare: il reportage di Fortress Europe da Rosarno

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Rosarno era una bomba ad orologeria. Questo il reportage di Fortress Europe di un anno fa:

Gabriele Del Grande - Fortress Europe
ROSARNO – Costretti a vivere in capannoni abbandonati, senza luce né acqua. Impiegati in nero, alla giornata, per una paga che raramente supera i 25 euro. Sono i raccoglitori delle arance della campagna tra Rosarno, San Ferdinando e Rizziconi, in provincia di Reggio Calabria. Sono almeno 2.000. Sono tutti immigrati: ghanesi, marocchini, ivoriani, maliani, sudanesi. E quasi tutti senza documenti. È una storia che dura da vent’anni. Arrivano a dicembre, per l’inizio della raccolta dei mandarini. E vanno via a marzo, dopo la raccolta delle arance. Quest’anno però la stampa nazionale si è accorta di loro. È successo lo scorso 13 dicembre, quando alcune centinaia di immigrati africani hanno marciato verso il centro di Rosarno, sfasciando qualche cassonetto per protesta. Il giorno prima, due ragazzi ivoriani di 20 e 21 anni erano stati feriti dagli spari di una pistola. Una ritorsione, secondo gli inquirenti, dopo una rapina andata male. A un mese dai fatti, siamo tornati a Rosarno. Abbiamo visitato le baraccopoli. Siamo usciti all’alba sulle piazze dove si cerca lavoro. E abbiamo scoperto una situazione molto complessa. Dove i proprietari degli aranceti sono i figli dei braccianti che fecero le lotte per le occupazioni delle terre dopo il fascismo. Dove ogni domenica una signora di 85 anni prepara da mangiare agli immigrati che vivono nella vecchia fabbrica in città. E dove un gruppo di avvocati sta cercando di aiutare gli immigrati senza documenti, che qua sono praticamente tutti.
 
Eppure le contraddizioni restano. L’emergenza abitativa nelle baraccopoli ricavate dentro le due vecchie fabbriche alla Rognetta e alla Cartiera è evidente. Mancano servizi igienici, acqua corrente, elettricità e riscaldamento. “Molti si ammalano qui”, dice Saverio Bellizzi, coordinatore del progetto a Rosarno di Medici senza frontiere. Le condizioni di lavoro sono dure. Ma non c’è lo stesso caporalato della Puglia. La maggior parte delle aziende agricole sono di piccoli produttori. Che vengono direttamente in piazza, ogni mattina, a caricare i quattro o cinque braccianti di cui avranno bisogno per al massimo una settimana. E non sono nemmeno negrieri. In una diffusa economia sommersa, qua il lavoro nero è la norma. E la paga di 25 – 28 euro per le otto ore di lavoro, non è così distante dai 32 euro negoziati dal contratto provinciale di Reggio Calabria. I produttori risparmiano soprattutto sui contributi. Un lavoratore in regola costerebbe sui 40 euro lordi. Ma il settore degli agrumi è in profonda crisi. Le clementine si riescono ancora a vendere a 28 centesimi al chilo. Ma il prezzo delle arance è crollato a 7 centesimi. Eppure nei supermercati si comprano a oltre un euro. Colpa dei tanti passaggi della trasformazione. E di un cartello che – in terra di mafia – ha bloccato lo sviluppo delle cooperative create negli anni passati dai piccoli produttori.
 
Così lo sfruttamento – come un domino – si ripercuote sull’ultimo anello della catena: i lavoratori. Assunti senza tutela. Anche nel caso dei comunitari, che vengono ingaggiati, per non aver problemi con l’ispettorato del lavoro, ma ai quali non sempre vengono pagate le effettive giornate di lavoro. Senza parlare dei non comunitari. Quasi tutti senza permesso di soggiorno. Quasi tutti non potranno regolarizzarsi per i prossimi dieci anni, avendo ricevuto un decreto di espulsione con divieto di reingresso in Italia. E allora il problema sembra trascendere Rosarno.
C’è in Italia un esercito di uomini illegali, costretti alla clandestinità dai meccanismi della legge sull’immigrazione, che vagano da una campagna all’altra del sud. Seguendo le stagioni: i pomodori a Foggia, le arance a Rosarno, le primizie a Caserta, la olive ad Alcamo, le patate a Cassibile. E vanno così a tappare i buchi di un agricoltura che al sud è sempre più in crisi. In quello stesso sud che dopo la seconda guerra mondiale si distinse per le dure lotte contadine del movimento delle occupazioni delle terre.
Cento immigrati vivono nelle baracche della vecchia fabbrica alla Rognetta
Era una vecchia fabbrica per la lavorazione delle arance. La Rognetta. Poi venne chiusa. Portarono via le porte, si arrugginirono gli infissi, cadde il tetto, crebbero le erbacce. E divenne la casa di un centinaio degli almeno 2.000 braccianti immigrati che ogni inverno si concentrano a Rosarno per la raccolta degli agrumi. Tra di loro la chiamano Fabrica Anciènne. Si trova a pochi passi dal centro di Rosarno. Vicino a una scuola elementare, sulla via Nazionale. La stessa strada che all’alba si affolla di uomini in cerca di lavoro. Da fuori si vede un cortile ancora sporco dei cumuli di immondizia rimossi poche settimane fa dal Comune. Sotto lo scheletro dei travi arrugginiti, le baracche sono state costruite ad arte, con teli di plastica, cartoni e cavi. Quando piove si allaga tutto. La fabbrica è divisa in due settori. Nel primo abitano i maghrebini.
Entro nella prima baracca. Tre metri per tre. Ci dormono in cinque. Sui tre materassi a una piazza appoggiati sui bancali, a terra. Kamal ha preparato il pane arabo sul fornellino a gas, nell’angolo. Lo assaggio. Non c’è corrente elettrica, bisogna mangiare prima che faccia buio. Sono le cinque del pomeriggio. “Ieri abbiamo fatto il cus cus”, scherza Mohamed. Sono sorpresi quando scrivo i loro nomi in caratteri arabi, sul mio taccuino. Vengono tutti da Sidi Ma’ruf, un quartiere di Casablanca. Erano vicini di casa, sono cresciuti insieme. Kamal ha 23 anni ed è in Italia da due anni e mezzo. Mohamed invece ne ha 31 e in Marocco ha due bambini. E’ arrivato in Italia il 24 gennaio del 2008. A bordo di un barcone partito da Garabulli, vicino Tripoli, con 220 persone a bordo, intercettato al largo di Lampedusa. Hisham era sulla stessa barca. Anche lui vive nella baracca, ha 23 anni.
Lui e Tareq mi lasciano il loro indirizzo email, per rimanere in contatto. Hanno tutti un foglio di via, ricevuto dopo lo sbarco a Lampedusa. Ma non tutti hanno il decreto di espulsione e quindi il divieto di reingresso in Italia, e sperano di poter rientrare in un decreto flussi per regolarizzarsi. Mohamed è sceso da Milano. Nel capoluogo lombardo non trovava lavoro e aveva sentito dire che qua si poteva guadagnare qualcosa con la raccolta. Per ora sta lavorando poco. Ha un handicap alla mano sinistra. Gli mancano due dita.
Hicham invece non ha ancora avvertito il padre del suo arrivo in Italia. Vive a Bologna da trent’anni, dice, e ha la cittadinanza italiana. Ma non l’ha mai chiamato per il ricongiungimento familiare, evidentemente non sono in buoni rapporti. E adesso che è venuto in modo clandestino, non gli va di farglielo sapere. Qua sono arrivati tutti con il passaparola. Mi chiedono se potranno regolarizzarsi. Se il governo ha in programma sanatorie. Scuoto la testa. Mohamed mi si avvicina. In Marocco faceva il commerciante, dice. Aveva un banchetto. Vedeva ogni estate ritornare gli emigranti con macchine nuove e vestiti firmati. Ha rischiato la vita per venire in Europa, sui barconi che partono dalla Libia. “Mais le rêve n’était pas vrai”. Il sogno non esiste. L’Italia se l’era immaginata diversa. Migliore.
Esco dalla baracca. Gli operatori di Medici senza frontiere, che mi hanno accompagnato alla vecchia fabbrica della Rognetta, stanno distribuendo volantini multilingue sull’ambulatorio sanitario STP di Rosarno dedicato ai migranti senza documenti. Nel piazzale, dietro quattro pareti di lamiera e eternit, si intravedono le spalle nude insaponate di un ragazzo che si sta lavando prima che cali il sole. I bagni invece non esistono proprio. Si va nello spiazzo dietro il capannone. Fuori intanto qualcuno ha acceso il fuoco. Il fumo arriva dalla zona degli africani. Intorno alla fiamma, una decina di maliani si stanno riscaldando prima che cali il buio. A fianco qualcuno sta cucinando su un fornellino a gas, mentre alcuni ragazzi fanno avanti e indietro con le taniche riempite d’acqua al rubinetto recentemente collegato all’acquedotto comunale, sulla strada, a duecento metri dalle baracche.
In questo settore della vecchia fabbrica, le baracche sono una appoggiata all’altra. In ognuna ci dormono fino a nove persone. Una sull’altra. Senza riscaldamento. Senza luce. Senza acqua corrente. I telefonini li ricaricano al call center vicino all’hotel Vittoria. Sono maliani, ivoriani, burkinabé, guineani, senegalesi. Sono tutti sbarcati a Lampedusa. Ma la loro situazione è diversa da quella dei marocchini. A partire dai documenti. Molti sono richiedenti asilo. Mamadou Djakité, classe 1984, mi mostra il suo permesso di soggiorno. Motivo: richiesta asilo. Valido sei mesi in attesa dell’esito del ricorso. Molti vengono dal Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Crotone. Mamadou per esempio è sbarcato a Lampedusa nel giugno del 2008. Poi è stato portato a Crotone. Ha fatto richiesta d’asilo. E dopo la risposta negativa della Commissione, un avvocato del centro ha fatto ricorso e la questura gli ha rilasciato un permesso di soggiorno di sei mesi. Un permesso con cui potrebbe lavorare. Regolarmente. Ma si ritrova qui. “A Crotone ci hanno portato alla stazione del treno, ci hanno comprato un biglietto e arrivederci” racconta con sarcasmo mentre allunga le mani verso il calore del fuoco. Aspetta una risposta dall’avvocato. Ma neanche lui ci crede. Gli chiedo se l’ha chiamato. Dice che è inutile, perché tanto non sa il francese. No, ammettono ridendo, nessuno di loro si immaginava che l’Europa sarebbe stata così.
Mi affaccio in una delle baracche dei maliani. Lo spazio calpestabile è poco. Per terra ci sono materassi ovunque. “Non si riesce a dormire quando piove – dice Amadou – cade l’acqua dentro”. Sotto le coperte, in penombra, vedo un ragazzo. E’ malato. “Sono soprattutto problemi polmonari – dice Saverio Bellizzi, il dottore di Medici Senza Frontiere – altre volte problemi legati alla cattiva alimentazione o alla scarsa igiene, oppure problemi osseo muscolari legati a infortuni sul lavoro nei campi”. Arrivano sani e si ammalano in Italia. A Rosarno i maliani dicono di essere arrivati col passaparola. A Crotone si diceva che qua si poteva lavorare. Ma non c’è lavoro. Ogni mattina si mettono in fila sulla Nazionale. Un centinaio. Dalle cinque e mezza in poi. Lavorano in media 2 giorni a settimana. Mamadou non esce nei campi da 24 giorni. Tiene il conto. Ma perché non se ne vanno allora, se qui non c’è lavoro. Andare dove? Non hanno nessuna prospettiva. Per spostarsi in una città servono soldi per il trasporto e per prendersi una stanza. Qui almeno si inganna il tempo. In attesa di tempi migliori. Non tutti però la pensano così. Più tardi, sulla nazionale, incrocio un gruppetto di sei africani, zaini in spalla, che camminano verso la stazione del treno. Dicono che tornano a Napoli, perché qua non c’è lavoro. Scorro i loro sguardi prima di salutarli. Sandro Pertini faceva il muratore in Francia durante l’esilio. Poi divenne presidente della Repubblica. Chissà se anche tra loro ci sarà un futuro presidente… sorrido all’idea. E stavolta li saluto davvero.
Emergenza alla cartiera: 400 braccianti immigrati vivono in un capannone abbandonato
Dagli squarci del tetto entrano abbaglianti fasci di luce. E illuminano il labirinto di cartoni immerso nella penombra del capannone. Vecchi pacchi di biscotti Oro Saiwa e manifesti del circo Orfei costituiscono le pareti delle baracche dei braccianti immigrati, che come ogni inverno raggiungono la piana di Gioia Tauro per la raccolta degli agrumi. Solo in questa fabbrica fantasma vivono 400 uomini, la maggior parte ghanesi. Si tratta della ex “Modul System Sud”, siamo nel comune di San Ferdinando, uno dei tanti capannoni fantasma di queste campagne, costruiti con fondi pubblici negli anni Novanta e poi abbandonati per fallimento. Gli immigrati la chiamano semplicemente Cartiera. Oppure Ghetto Ghanéen. Il ghetto dei ghanesi. Che qui sono la maggior parte. I cartoni sono tenuti insieme da canne di bambù, spago e nastro adesivo. In ogni baracca, di tre metri per tre, dormono tra cinque e dieci persone. Sui cartoni, o su vecchi materassi. I più fortunati hanno anche le reti. Altri hanno montato delle tende da campeggio. Orientarsi è difficile. Il pavimento è di cemento. In alcuni punti è allagato. Piove dal tetto. La sensazione più forte è l’odore. Di fumo. Non si respira. Ci sono fuochi accesi un po’ dappertutto. I muri sono anneriti. Servono a cucinare e a riscaldare l’ambiente.
Mohamed è l’unico marocchino della Cartiera. Parla un buon italiano. Viene da Marrakesh ed è arrivato anche lui da Lampedusa, sei anni fa. Viveva vicino a Bologna. È stato in carcere, ma preferisce non parlare della propria fedina penale. A Rosarno è arrivato un mese fa. Non si lamenta di niente. “Nessuno mi ha chiesto di venire in Italia”, scherza. La sua baracca è più piccola delle altre. Due metri per due. Ci dorme da solo. Entriamo. Mohamed aggiusta le coperte e si scusa del disordine. Su un bidone rovesciato è appoggiato il piatto sporco dell’ultimo pranzo. Il soffitto è alto due metri. A venti centimetri dalla mia faccia un mezzo pollo spennato e pronto per essere cucinato è appeso per un filo alla zampa gialla. Non so da quanto tempo. Deve essere la cena di stasera.
Di fronte alla baracca di Mohamed, una dozzina di ghanesi è seduto sulle pietre intorno al fuoco. Il grasso dei polli sulla griglia cola sulla brace, scoppiettando. Alcuni sono sbarcati quest’anno e sono appena usciti dai centri di accoglienza di Crotone, Bari e Caltanissetta. La maggior parte però sono scesi da Castelvolturno e in generale da Napoli, dove si concentra buona parte dei ghanesi senza documenti sbarcati a Lampedusa negli ultimi anni. Fanno le stagioni. I pomodori a Foggia. Poi le arance a Rosarno. E a marzo le patate a Cassibile. Sono arrivati a Rosarno da un paio di mesi. Quest’anno c’è poco lavoro, dicono: “c’è stata una gelata e poi siamo in troppi”. Alcuni se ne stanno già andando.
Oltre ai ghanesi di Castelvolturno, ci sono ivoriani, burkinabé e togolesi. K. è ivoriano, lo incontro davanti al cancello. Ha 36 anni, vive in Italia dal 2003 e ha un permesso di soggiorno. Ma è disoccupato e a Padova, dove viveva, non è riuscito a trovare una nuova occupazione così e sceso a Rosarno, dove era stato l’anno in cui sbarcò in Italia, nel 2003. Allora dormivano in una palazzina vuota, in centro, di proprietà della Asl. Una notte vennero sgomberati. Per protesta si portarono i materassi sotto il municipio. Poi occuparono il capannone della Modul System Sud. Oggi la villetta sgomberata ha porte e finestre murate. K. invece puzza di alcol. Anche oggi ha bevuto. Alla Cartiera non è l’unico ad avere problemi con l’alcol. Serve a dimenticare il proprio fallimento. Un ragazzo che incontro tra le baracche inizia anche a alzare la voce. Vedrò cosa succederà agli italiani in Ghana se lo rimpatriano. La mia pelle bianca rappresenta la peggiore Italia che ha conosciuto.
Fuori invece è arrivata l’Italia che si rimbocca le maniche. Un gruppo di rosarnesi ha portato tre avvocati dalla provincia. Si sono messi a censire i documenti dei 400 abitanti della cartiera, per vedere se per qualcuno ci sono gli estremi per un ricorso o una domanda d’asilo. Fuori si sono disposti tutti in quattro lunghissime file. Viste dall’alto sembrano dei serpentoni. Sul tetto della cartiera mi ha portato Robert. Un ragazzo ghanese che continua a mostrarmi la sua richiesta d’asilo, presentata nel 2004 a Crotone, e poi scomparsa in qualche vicolo cieco della burocrazia italiana. C’è scritto che è sudanese, ma bastano alcune battute in arabo per essere sicuri del contrario. Ma è l’unica strada che ha per regolarizzarsi. Dal piazzale, sul tetto si sale attraversando i vicoli tra le baracche all’interno della vecchia fabbrica, e poi alcuni corridoi bui. L’occhio chiede il suo tempo per abituarsi all’oscurità. Nell’aria persiste l’odore di legna bruciata e di fumo. Sul pianerottolo delle scale qualcuno sta cucinando un filetto di pesce in un pentolino con olio di semi, cipolle e pomodori freschi. Il pranzo della domenica. Lungo il muro sono disposti una decina di paia di stivali vuoti. Sugli intonaci anneriti dal fumo, sono scritti come codici segreti, una serie di numeri di telefono. Sul terrazzo alcuni ragazzi sono piegati sui secchi a lavare il bucato, steso tutto attorno, direttamente appoggiato sui muri.
Visto dall’alto il cortile è molto più animato di quanto non sembrasse. Vedo due banchetti, dove si vendono vestiti e bibite. Alcuni ragazzi fanno la fila di fronte ai rubinetti aperti da dove scorre l’acqua corrente, utilizzata tanto per bere che per lavare e lavarsi. Tutto intorno c’è spazzatura. Ci sono due cassonetti pieni. Ma il Comune non li viene a vuotare da un mese. Idem con gli otto bagni chimici, installati un mese fa sul lato posteriore del fabbricato e poi lasciati lì, ormai inutilizzabili. Non restano che i bagni rotti e allagati sul retro: sei turche e quattro docce per 400 persone.
Poco dopo arrivano gli evangelici. Sono di una chiesa di Palmi, vengono ogni domenica. Distribuiscono un pranzo gratuito. Il menu di oggi è purè di patate, macinato di carne e un bicchiere di vino. Non tutti però si mettono in fila. Dall’altro lato del piazzale sono accesi due fuochi. Dalla pentola coperta esce un profumino invitante. Mi hanno detto che è questa la tenda dei sudanesi. E infatti seduti intorno ai carboni si parla arabo. Sono una ventina. Sono venuti da Palermo e da Milano. Abbiamo amici in comune nel mondo dell’associazionismo. Tutti quanti hanno i documenti in regola, a parte due ragazzi che però oggi sono nei campi. Da Palermo sono venuti in automobile. Hanno montato una tenda nel piazzale dove vendono bibite analcoliche agli abitanti della Cartiera. Hasan Suleiman, Mohamed e Yaqub vengono tutti dal Darfur. Hanno attraversato il deserto e il mare. E anno dopo anno continuano a vagare nelle campagne italiane, tra gli olivi di Alcamo e gli aranci di Rosarno.
All’alba sulle vie di Rosarno, con gli immigrati in attesa dei caporali
Quando esco dall’hotel Vittoria, sono le 5 e 42. La reception è vuota. Meglio così, non dovrò dare spiegazioni su questa passeggiata notturna. Fuori è ancora buio. La statale 18 è illuminata dai lampioni. Dopo un quarto d’ora a piedi raggiungo la Rognetta, la vecchia fabbrica occupata dai braccianti immigrati. La strada è deserta. Non ci sono marciapiedi. Si cammina tra le macchine parcheggiate e le serrande dei negozi chiusi, sfiorati dai camion in corsa. Un gruppetto di ragazzi allungare il passo sulla strada. Decido di seguirli. All’incrocio, davanti al supermercato, svoltano a destra, in una strada buia. Non ci sono lampioni. E’ buio pesto. Decido lo stesso di inoltrarmi, oltre quella cortina nera, dopo un attimo di esitazione.
Nel buio non si distingue niente. Prima dell’alba i braccianti non hanno una forma. Solo un rumore. Quello del ciampettare degli stivali di plastica sull’asfalto bagnato di pioggia. E del frusciare dei sacchettini di plastica con dentro i mandarini e il panino per il pranzo. Il raro passaggio di qualche automobile in corsa, illumina i loro cappotti. Poi scompaiono di nuovo nell’oscurità. La strada sembra non portare da nessuna parte, decido di tornare indietro. Ma sui miei passi incontro altri due braccianti. Decido di avvicinarli. Mi presento in francese.
Non riesco nemmeno a distinguere i tratti del viso di Touré. Viene dalla Guinea Conakry. E’ arrivato in Italia un anno e mezzo fa. Con un visto turistico che ha lasciato scadere, accumulando nel frattempo due fogli di via. A Roma viveva al dormitorio della Caritas, in via Marsala. Poi ha deciso di scendere verso la Calabria. Aveva sentito dire che qua si lavorava bene. Ma non è così. Stamattina ha appuntamento nel giardino dove ha lavorato ieri. Ci va a piedi per risparmiare i due euro e cinquanta che si prende l’autista. Ma se piove dovrà tornare indietro. Senza paga. L’autista lo chiama “capo nero”. Sono africani che vivono qui stabilmente, o che hanno dei buoni contatti coi padroni dei campi, e che provvedono a fornire la manodopera per la raccolta. Touré è la prima volta che viene a Rosarno. A Conakry studiava economia, all’Università. Ha lasciato gli studi per partire. Aveva provato a chiedere un visto a Stati Uniti e Germania, ma è stato inutile.
Questo giovane guineano mi conferma che non sempre il lavoro è pagato. A lui è successo una settimana fa. A fine giornata non li volevano pagare. Hanno protestato. E il proprietario ha impugnato l’accetta minacciando di ammazzare qualcuno. Allora hanno lasciato perdere. Altri raccontano di essere stati minacciati con pistole e fucili. Ma sono casi rari. Touré vorrebbe mettere dei soldi da parte e andare a Milano, per continuare i suoi studi in economia. Quando ci salutiamo, le prime luci dell’alba mi mostrano finalmente i suoi lineamenti del viso. Lui continua a piedi in una strada sterrata. Mancano ancora due chilometri alla tenuta. Io torno indietro. La rotonda, che prima mi sembrava vuota, è in realtà occupata da una quarantina di africani, seduti sul guardrail e pronti per andare a lavorare. Nascosti sotto cappotti e berretti di lana, indossano tutti stivali verdi di gomma, nei quali portano infilati i pantaloni sporchi di terra e lavoro. Ognuno ha appresso un sacchettino di plastica con il pranzo. Parlano malinke, bambara, wolof. Sono le lingue dei campi rosarnesi di questo inverno.
Ma in verità i braccianti più numerosi sono gli est europei. Ukraini, polacchi, bulgari e rumeni. Vivono in case affittate, in città. Somaticamente non danno nell’occhio. Ma ogni mattina scendono in piazza anche loro, sulla nazionale, in centro, per andare a raccogliere agrumi. Alle otto del mattino ce ne sono almeno 80. Dai due lati della strada. Guardo meglio e riconosco Mohamed, il ragazzo marocchino di Sidi Ma’rouf che avevo conosciuto il giorno prima alla Rognetta. Lo vado a salutare. Accanto a lui c’è anche Tareq e Hicham. I ragazzi di Sidi Ma’ruf che avevo conosciuto ieri alla Fabrica Ancienne. Ci fermiamo a parlare. Ne esce una improbabile discussione sui rosarnesi, Cartesio e la poesia araba. Hicham ha studiato al liceo, a Baida’. Conosce Battuta, Darwish, Qabbani e Mahfuz. Dice che anche lui, nel tempo libero scrive poesie. Poi cambia discorso. Dice che nei campi non hanno problemi, che i problemi sono la notte, con i giovani di Rosarno. “Arrivano in due sugli scooter e si divertono a tirare sassi e bottiglie vuote”, racconta. Ha sentito parlare dei due ivoriani a cui hanno sparato, a dicembre. Per questo non escono quando fa buio. Sorride, la fronte coperta dal cappellino di lana. Ha il viso sbarbato. Ogni tanto si ferma una Panda. Qualcuno sale. Soprattutto i bulgari. Il gruppetto dei marocchini invece è ancora tutto lì. Probabilmente anche oggi non lavoreranno.
L’unico rosarnese al corteo degli africani
La mattina dello scorso 13 dicembre, Rosarno fu svegliata dal chiasso degli immigrati. Erano in centinaia sulla via nazionale, come ogni mattina d’inverno. Ma non per cercare lavoro, bensì per protestare. La sera prima infatti due ragazzi ivoriani di 20 e 21 anni erano stati feriti a colpi di pistola da due giovani rosarnesi, mentre rientravano alle baracche della Cartiera dal lavoro negli aranceti. Marciavano diretti alla piazza del municipio con un cartello “Africani no criminali” e rovesciando i cassonetti.
In mezzo a loro c’era un unico rosarnese, un signore sulla cinquantina. Stava accompagnando la nipote a scuola. Chiese cosa fosse successo, non sapeva nulla della sparatoria. E allora decise di accompagnarli fino al municipio, “per capire cosa stava succedendo” e per calmare gli animi dei pochi che cercavano di divergere i cartelli della segnaletica stradale. In paese c’era una psicosi generale. Non si era mai visto nulla di simile. La gente guardava dalle finestre. Ricorda l’odore. L’odore forte. L’odore della miseria.
E’ un testimone prezioso. Come molti anziani rosarnesi, ha una azienda agricola. E come molti, impiega anche lui immigrati senza documenti per la raccolta degli agrumi. Ogni anno, dà lavoro a quattro persone. Va lui a prenderli con la macchina. Ogni anno sceglie persone diverse, come capita. “Stavo buttando la spazzatura e ho appoggiato il sacco a terra, per chiudere il bagagliaio. In quel momento uno di questi africani aveva tirato il sacco nel cassonetto e mi chiedeva se avevo lavoro. E io gli ho detto guarda cercava proprio quattro persone. E allora è andato a chiamare tre amici e li ho portati in campagna. Poi usi gli stessi. Ci si dà appuntamento per l’indomani mattina”.
Come gli altri agricoltori, li paga 25 euro al giorno per sette ore di lavoro. Dalle otto alle dodici. E dalle tredici alle sedici. La paga prevista nella provincia di Reggio Calabria sarebbe di 32. Che con i contributi gli costerebbero 40. “Ci pagano troppo poco, non possiamo dargli di più” si giustifica. “Però mio padre insiste sempre per farli lavorare un po’ di più. Se in tre giorni è finito il lavoro lui li chiama un’altra giornata, così fanno 100 euro”.
E’ convinto di aiutarli. “Ogni mattina la vivo come un calvario. Ogni volta che passo dalla via nazionale. Tutti che ti alzano la mano e ti chiedono di farli lavorare e tu che non puoi aiutarli perché non ne hai bisogno”. Dopotutto anche volendo non gli si potrebbe fare il contratto perché non hanno i documenti. La storia va avanti da vent’anni. Alla fine degli anni Ottanta, racconta, erano iniziati ad arrivare i marocchini. Vivevano in una masseria abbandonata, in campagna. Lui che non abitava distante, un giorno decise di portare loro qualcosa da mangiare. Lo ringraziarono e lo invitarono a entrare. Ricorda che c’erano dei cartoni a terra, sopra i quali dormivano. E che non c’era luce né acqua corrente. “Sono passati vent’anni – dice con amarezza — e non si è fatto nulla. Loro sono aumentati e noi abbiamo perso la sensibilità”
Il parroco rosarnese che a Natale mise un Gesù nero nel presepe
All’inizio del ventesimo secolo, suo nonno emigrò in America. Quando tornò comprò della terra, ci piantò degli aranci e la lasciò in eredità ai fratelli. Anche la famiglia di don Pino, parroco della chiesa di San Giovanni Battista, a Rosarno, è proprietaria di un giardino di aranci. Il sacerdote ha fatto discutere in paese, quando a Natale, in segno di solidarietà con gli immigrati della Cartiera, ha messo un Gesù nero nel presepe.
La Caritas, di cui è responsabile, da una decina d’anni offre una mensa agli immigrati, tre sere a settimana. “I primi arrivarono alla fine degli anni Ottanta, erano tutti maghrebini”, racconta don Pino nel suo studio, sotto il ritratto di una Madonna della Romania. Lui è parroco a Rosarno dal 1972. E di braccianti stranieri ne ha visti passare migliaia. Ogni anno. All’inizio erano marocchini, tunisini e algerini. Poi arrivarono gli africani, negli anni Novanta. E ultimi gli est europei. Prima ukraini e polacchi, poi bulgari e rumeni, oggi preferiti perché in quanto neocomunitari fanno passare meno rischi nel caso di controlli dell’ispettorato del lavoro.
Ma l’arrivo stagionale dei braccianti per la raccolta delle arance c’era anche prima. Negli anni Sessanta e Settanta arrivavano dalla costa ionica calabrese, e le maestranze salivano dalla Sicilia. Ne è una prova – sostiene il sacerdote — il fatto che molte dei 15.000 abitanti del paese hanno origine di altre province. Don Pino conosceva anche Andrea Fortugno, il ragazzo accusato di aver sparato ai due ragazzi ivoriani lo scorso 12 dicembre, dopo una rapina andata male. Veniva in parrocchia. Non crede si tratti di un atto razzista. E non crede che Rosarno si possa definire razzista. “La gente aiuta nel limite del possibile”. Le aggressioni sono opera di pochi giovani, “cresciuti all’interno di una cultura mafiosa e delinquenziale, nella logica di andarsene in giro a fare quello che vogliono impunemente e di ottenere tutto con la violenza, anche rapinando uno di quei poveretti”. Al momento dei saluti, incontriamo Norina Ventre, 85 anni, meglio conosciuta come Mama Africa. Già perché nonostante l’età, ogni domenica dà da mangiare a cento persone, alla Rognetta. Anche lei è uno dei volti dell’altra Rosarno di cui parlava don Pino.
Rosarno ha una storia: le lotte del bracciantato nel dopoguerra
Rosarno ha una storia. Ed è una storia di lotte contadine. Che con le occupazioni delle terre del demanio fecero di questo poverissimo borgo una ridente cittadina nell’immediato dopoguerra. Quella storia è disegnata su un affresco sul muro della posta centrale, in piazza Valarioti. Un uomo e una donna con un neonato in braccio, seguiti da un gruppo di contadini, marciano a testa alta in mezzo a oliveti e aranceti. Due generazioni dopo, a sfruttare il lavoro nero dei braccianti stranieri, sono i figli di quegli stessi contadini. La maggior parte dei terreni infatti è di piccoli proprietari, spesso eredi dei braccianti a cui vennero redistribuite le terre nel dopoguerra.
La Guerra aveva distrutto la già fragile economia calabrese. Braccianti e contadini erano più poveri di prima. Interi paesi erano senza strade, senza luce, senza acqua corrente, senza cimiteri, medici e scuole. Le prime occupazioni iniziarono nel settembre del 1944 a Casabona, in provincia di Krotone. Le truppe alleate non intervennero. Il movimento di occupazione delle terre dei latifondi iniziò a prendere forma, soprattutto nel crotonese. Il 28 novembre 1946 cadde la prima vittima. Giuditta Levato, uccisa per mano del fattore di un agrario, a Calabricata. Il 29 ottobre 1949 durante un’occupazione a Melissa, la polizia aprì il fuoco sui contadini. Morirono tre persone: Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito. Altri 14 rimasero feriti. Due anni prima, il primo maggio 1947, si era consumata la strage di Portella della Ginestra, a Palermo, dove i banditi di Giuliano avevano ucciso 11 contadini.
E’ in questo clima che a Rosarno la cooperativa Primo Maggio di Enzo Misefari del Partito Comunista italiano, inizia le occupazioni dei circa 2.000 ettari di bosco di proprietà del demanio, intorno al borgo. I primi che occuparono le terre, furono arrestati dalla polizia di Scelba. Ma alla fine si procedette alla redistribuzione. Le terre venivano misurate con uno spago, da cui venne la misura di 6.660 metri quadrati della “cota”. Ogni bracciante aveva diritto a mezza cota. La coltivazione di arance non iniziò subito. All’inizio venivano usati per coltivare legumi e angurie.
Le famiglie contadine erano numerose, contavano sette o otto figli. Ogni mattina scendevano tutti in strada per cercare lavoro nei campi, come fanno oggi gli immigrati. Al bosco poi c’era la zona dei carcerati. “Ai carcerati” si chiamava. Erano terre che erano state riservate ai militanti finiti in carcere per le occupazioni e che vennero loro assegnate alla loro liberazione. Allora Rosarno era molto povero. Al punto che uno dei suoi quartiere veniva chiamato Corea, e i suoi abitanti coreani, perché ricordavano le immagini dei profughi coreani sotto le bombe americane in quegli anni.
Solo a metà degli anni Sessanta il Consorzio della bonifica realizzò l’irrigazione e si poté iniziare a piantare gli agrumi. Per le famiglie contadine fu una manna. Tutti i membri della famiglia lavoravano alla coltivazione. Ed era molto redditizia. Con gli incassi si riuscivano a costruire case e a sposare figli. Da cui il proverbio dialettale: “’Cu ‘na cota i giardino si izavano case e si maritavano figghie

Formato per la citazione:
Fortress Europe. “Arance amare: a Rosarno, tra i braccianti immigrati”. terrelibere.org, 02 febbraio 2009, http://www.terrelibere.org/arance-amare-a-rosarno-tra-i-braccianti-immigrati
 
  1. avatar
    Anonimo ha detto:

    Commovente e tragico

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    Luciana Marinelli ha detto:

    Ho appena finito di leggere questo dettagliato racconto-cronaca del febbraio 2008 che fa ben comprendere la drammaticità in cui vivono gran parte degli immigrati che vengono utilizzati nella raccolta dei prodotti agricoli. Oggi, nell’informarci dei drammatici fatti di Rosarno, nessun servizio dei TG nazionali ha menzionato quanto era già accaduto un anno fà, a meno che non mi sia sfuggito. Non aggiungo altro.

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    Mauro Pigozzi ha detto:

    Oltre alla tragedia umana, c’è anche la farsa politica, con il cosiddetto Ministro degli Interni che continua a vomitare m***a sugli immigrati e sul presunto “buonismo” che crea tutto ciò… questo dimostra a che livello di bollitura è arrivata la politica italiana: si parla solo per propagandare le idee del proprio (purtroppo fruttoso) orticello, il resto chi se ne frega! Ma forse sono peggio tutti quei sindaci di centro-sinistra del Nord che per guadagnare pochi voti in più, cercano di scimiottare la Lega sul loro campo… a questo punto meriterebbero tutti una sola cosa: l’oblio eterno!

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    Anonimo ha detto:

    condivisibile tutto Mauro, ma a questo punto facciamo anche una considerazione e cioe’ che la classe politica altro non e’ se non la rappresentazione di cio’ che siamo, io direi che facciamo proprio schifo, come popolo e come persone. Partiamo da questa constatazione cosa abbiamo perso , se c’e’ stato mai qualcosa che abbiamo perso o se piuttosto non siamo stati sempre cosi’, razzisti, abietti, piccolo borghesi e meschini , cosa si puo’ fare a livello culturale per risvegliarci o se piuttosto dobbiamo constatare che con le rivoluzioni culturali non si va da nessuna parte e bisogna agire in altro modo.

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    Mauro Pigozzi ha detto:

    Era sottinteso che facciamo schifo come paese, ed il razzismo è, purtroppo nel nostro DNA, fin dagli anni del colonialismo, le leggi razziali fin giù a “Non affittiamo ai meridionali” arrivando ad oggi… ci dimentichiamo la nostra migrazione, accampando le solite scuse da “Si ma noi”, che è poi il classico “Italiani brava gente”. Purtroppo non sono fiducioso sul futuro, tutt’altro, vedendo poi certe trasmissioni pomeridiane dove la fanno da padroni Santanchè e leghisti vari inizio a pensare che solo una guerra termo-nucleare ci possa salvare!

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    Cecilia ha detto:

    Molto interessante — a proposito — il commento di Sandro Portelli sul Manifesto di oggi. Da leggere e diffondere

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    barabba ha detto:

    dove sono le pancie pasciute dei nostri sindacalisti,o giornalisti d’elite che pontificano da ogni dove.sfruttati i produttori sfruttati i lavoratori.
    che miserie umane,mi vergogno che il mio paese sia in queste mani.

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